TwoSisters
|
Ormai è chiaro, la nuova via della paura porta in estremo Oriente. Se da un lato il cinema occidentale è in grado di produrre in fotocopia horror patinati sulla scia de “Il sesto senso” (con pochi picchi e molti tonfi), o baggianate per ebeti teenager americani alla “Freddy Vs Jason”, la cinematografia giapponese e coreana ha sfornato nelle ultimi stagioni autentiche chicche in grado di risvegliare timori ancestrali. Gli stessi che le pellicole della nostra tradizione non sembrano più in grado di andare anche solo a solleticare. Opere come “Ju on – The Grudge” e, appunto, “Two sisters ” si collegano a un livello di brivido puro che è autentica nuova linfa per un genere che negli anni Novanta pareva destinato al requiem. Se “Ju on” riusciva senza mezzi termini, ma con indubbia eleganza, a elaborare percorsi basati sull’angoscia oltre i limiti del sostenibile partendo da un presupposto disorientante e antinarrativo (ripetitività delle situazioni, assenza di spiegazioni, cambio continuo di protagonista), “Two sisters”, basato su un racconto tradizionale portato sugli schermi già cinque volte, richiede allo spettatore uno sforzo mentale maggiore, costringendolo a calarsi nella vicenda di due giovani sorelle, legate da un rapporto ai limiti del morboso, che tornano col padre nella casa dove sono cresciute,dopo aver trascorso un periodo in una clinica psichiatrica in seguito al suicidio della madre. Là trovano l’odiata matrigna, ma non solo: fra apparizioni, cigolii e porte che sbattono, i tremanti spettatori saranno costretti a rivivere gli incubi dell’infanzia delle due ragazze fino a comprendere che le cose non stanno proprio come sembrano. Il ribaltamento finale è un classico dell’horror moderno e non manca tutto il repertorio di spaventi tradizionali, ma in “Two sisters”, al di là dell’elaboratezza del racconto, quello che colpisce è come l’autore riesca a costruire una paura continua e strisciante e un senso di disagio quasi palpabile fin dalle prime inquadrature. Come raramente accade, la tensione regge fino al termine perché Kim Jee-woon gioca le carte migliori proprio nella costruzione del finale, evitando virate nel grand-guignol e mostrando una crudeltà non comune in un’epoca di cinema buonista e programmaticamente all’acqua di rose. Mario62 |