Recensione film horror Zodiac

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locandinaRegia: David Fincher
Sceneggiatura: James Vanderbilt (tratto dai romanzi “Zodiac” e “Zodiac Unmasked: The Identity of America’s Most Elusive Serial Killer Revealed” di Robert Graysmith)
Attori: Jake Gyllenhaal, Mark Ruffalo, Robert Downey Jr.
Produzione: U.S.A. 2006
Durata: 156′

Voto: 6/10

Storie di serial killer, imprevedibili e inafferrabili, folli e geniali, disturbati quanto originali nel motivare il loro istinto punitivo quasi “divino” (molti di essi si sentono degli Dei, in effetti, esseri superiori e trascendenti); storie che Fincher ha nelle proprie corde, se ricordiamo il riuscitissimo “Seven”, in cui trasferisce la propria vocazione a far cinema d’atmosfera, cupo ed enigmatico. Vocazione al cupo che percorre tutta l’opera del nostro, per alcuni sopravvalutata, ma pur sempre significativa di titoli come il già citato “Seven”, “Fight club”, il claustrofobico “Alien 3” e i più deludenti “The game” e “Panic room”. Dopo tante prove legate a trame immaginifiche o ai limiti del credibile, Fincher sceglie nuovamente un serial killer come protagonista (imprendibile) della pellicola, ma non inventa nulla, forse romanza, ma è più che lecito lo faccia, trattandosi di opera di intrattenimento, rifacendosi ad uno dei più inquietanti casi irrisolti dell’America del dopoguerra: i delitti compiuti da Zodiac.
Chi è Zodiac? È un serial killer compiaciuto della sua opera, vanesio ed egocentrico (come tutti i serial killer, più o meno), che ha scelto un mirino come simbolo (e non confondetevi, non è una croce celtica), e a cui piace farsi pubblicare lettere ed enigmi sulle pagine dei quotidiani delle zone in cui compie la sua efferata “missione”. Una sorta di missione, sì, così la vivono questi esseri evidentemente disturbati, così la “giustifica” anche Zodiac, che comincia la sua macabra opera nel 1969, nella zona della Baia di San Francisco. Diventerà cosi, per anni, al pari di Charles Manson, il terrore della generazione yankee sessantottina, tutta concentrata a mettere “fiori ideologici” nei cannoni dell’esercito americano. Ma questa è un’altra storia.  La storia in questione, invece, oltre all’inafferrabile pluriomicida, ha tre protagonisti evidenti: un vignettista (Jake Gyllenhaal), un giornalista (Robert Downey Jr.) e un poliziotto (Mark Ruffalo). Vada per il giornalista, il poliziotto è sempre d’obbligo, ma il vignettista che c’entra? C’entra eccome, c’entra più di tutti, perché sarà proprio lui a condurre l’indagine più accurata, quando Zodiac sembra oramai da tutti dimenticato.

Proprio dalle ossessioni di Robert Graysmith, il vignettista che assemblò la sua ricerca in un due fortunati romanzi, Fincher trae il plot della pellicola.  Segue le vicende dei libri fedelmente e le dilata per più di due ore e quaranta, attraverso indagini e contro indagini, quasi estenuanti a dire il vero. E qui l’amletico dubbio. Ha fatto bene? Ha fatto male? Poteva far meglio?  Difficile rispondere a questa domanda, perché “Zodiac” è un film che ha un suo fascino ma non una sua unità. C’è distanza, tra l’ottima regia ed una sceneggiatura ricca di spunti ma quasi del tutto priva di pathos. L’assenza di pathos è una pecca grave per un thriller, a meno che non si voglia considerare l’opera in questione una sorta di ricco documentario sui generis, che si avvale di regista e attori hollywoodiani. Ovviamente è una provocazione la mia, ma perché si è scelto di far durare il film così tanto, a dispetto di un esito conosciuto e nemmeno troppo incline al sussulto? Il dubbio resta, come resta la convinzione che si sarebbe potuto far meglio se il tutto fosse stato più brioso, meno meditativo e verboso. Ciò che latita difatti è proprio il ritmo, componente essenziale che in fondo, anche quando eccessiva, era stata elemento fondante e apprezzabile dell’opera fincheriana (se si eccettua l’ultimo, noioso, “Panic room”). È anche possibile che, essendo onesti fino in fondo, il doppiaggio italiano penalizzi i dialoghi, vista l’ottima accoglienza riservata a Cannes all’opera in versione originale.
I protagonisti, come sopra accennato, sono tre. Nessuno lascia tracce memorabili, ma l’interpretazione di Gyllenhaal convince, quella di Downey Jr., non favorito da un personaggio cui viene dato poco spessore, è di buon mestiere, quella di Ruffalo, con quel viso gonfio e quella pettinatura, ha un ché di involontariamente comico, in alcuni frangenti. La dimensione psicologica dei tre, nonostante la lunga durata, è tratteggiata al minimo livello di accettazione, mentre i contesti privati in cui agiscono gli attori sono toccati superficialmente e di sfuggita. Nemmeno il contesto storico, il Sessantotto americano, trova alcuna rilevanza narrativa, e allora si può ben dire che, a conti fatti, quello che nobilita maggiormente la pellicola è proprio la regia, che trova suggestive prospettive d’inquadratura (grazie anche all’utilizzo della macchina digitale Viper, che permette di modellare in maniera impressionante il colore), adoperando il mezzo tecnico come elemento fondante dello sviluppo narrativo. Soprattutto laddove riesce, nei pochi intermezzi “attivi”, a donare all’assassino un’aura terrificante e maledetta: osservate la bellissima sequenza iniziale, o l’incursione che sorprende la coppietta al lago. Qui si che ci può tornare alla mente “Seven”.
Risultato complessivo: un film che può incuriosire, che in alcuni frangenti può anche affascinare, ma che è più che altro una nuova occasione mancata per Fincher, dopo “Panic room”. Eccessivamente penalizzato dalla forma documento. I tempi di “Seven” e “Fight club”, pertanto, sembrano ancora abbastanza lontani.

Federico Magi 31.05.2007

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