Recensione film horror The Interpreter

Recensioni

locandinaRegia: Sidney Pollack
Sceneggiatura: Charles Randolph, Scott Franck, Steven Zaillian
Attori: Nicole Kidman, Sean Penn
Produzione: Gran Bretagna, Usa, 2005
Durata: 128′

Voto: 8,5/10

The Interpreter” è uscito al cinema durante la stagione in cui gli appassionati si trovano a dover fare difficili scelte sui film da guardare, quella autunnale ovviamente, in cui escono almeno 3-4 film da vedere ogni weekend.
Il trailer è veramente ben costruito e promette di intrattenere lo spettatore con un thriller “classico”, tutto tensione e indagini, colpi di scena ed FBI.
Ed in effetti “The interpreter” è proprio questo: un thriller davvero ben congegnato, molto realistico, ben scritto, terribilmente attuale, ottimamente interpretato e sufficientemente teso.

Silvia Broome è una cittadina del mondo, nata da madre inglese e padre africano nella Repubblica del Matobo, in piena Africa, si è laureata in lingue alla Sorbonne e ha girato mezza Europa per motivi di studio e lavoro prima di approdare, cinque anni prima dello svolgimento delle vicende raccontate dal film, alla sede Onu di New York.
Silvia è un’interprete, è “the interpreter”, molto richiesta per gli incontri d’anticamera tra americani e africani e molto precisa nel suo incessante lavoro dalla cabina della sala congressi; traduce dal ku, dialetto africano parlato in Matobo, all’inglese, parla correntemente francese e spagnolo e si lascia intuire che conosca diverse altre lingue.

Tobi Keller è invece un uomo distrutto dal dolore, ormai ci aveva fatto il callo alla fedeltà ballerina della moglie (e questa è una battuta sottilissima a beneficio di chi ha già visto il film), ma proprio questa volta che lei stava tornando con la coda tra le gambe, proprio questa volta che gli aveva lasciato un messaggio lacrimante in segreteria, proprio questa volta che sembrava sinceramente pentita, il suo amante è andato a schiantarsi contro la spalla di un ponte e l’ha colposamente uccisa.
Tobi lavora nei Servizi Segreti, sezione protezione dignitari, quindi si dedica al monitoraggio degli spostamenti dei capi di stato e simili che frequentano la sede Onu e alla loro protezione sempiterna, compreso il mantenimento delle distanze tra una spogliarellista ottimamente dotata e un primo ministro orientale.

Zuwanie è l’ultraottantenne capo di stato matobano, giunto al potere grazie al sostegno della gente che aveva creduto alle sue parole, asceso alla poltrona di primo ministro grazie alla sua strenua lotta contro i terroristi suoi nemici.
Una volta giunto al potere però Zuwanie si è rivelato uno spietato assassino, il mandante di una pulizia etnica cruenta, un tiranno per la sua gente e uno scomodo alleato per il resto del mondo (anche se la posizione degli Usa è alquanto ambigua).

Mancano tre giorni alla visita ufficiale di Zuwanie e al suo discorso all’Onu, davanti ai delegati di 191 paesi del mondo; Keller e il suo staff sono in pieno fermento dei preparativi per quella che si annuncia la visita dell’anno, data l’importanza strategica del discorso di Zuwanie e dato il numero di nemici, interni ed internazionali, che il soggetto è stato capace di accaparrarsi nel corso degli anni.
Quella sera, tornando in cabina per recuperare le sue cose per andare alla lezione di flauto, Silvia carpisce un dialogo in dialetto ku che si sta svolgendo nella buia e microfonatissima sala dei congressi e fugge a gambe levate.
Quel bisbiglio che Silvia ha compreso era molto chiaro, qualcuno sta progettando un attentato ai danni di Zuwanie in occasione della sua visita alla sede Onu.
Dopo la sua denuncia, fatta dopo diverse ore dall’accaduto, vengono coinvolti Keller e la sua squadra, il team di bodyguards di Zuwanie, FBI, CIA, NSA e chi più ne ha, più ne metta, ma soprattutto viene coinvolto il passato oscuro di Silvia, che apparentemente è solo una bellissima interprete che svolge alla precisione il suo lavoro, ma solo apparentemente…

Spero di avervi incuriosito abbastanza riguardo alla trama e vorrei parlarvi subito della sceneggiatura, scritta da Charles Randolph (“The life of David Gale”), Scott Frank, Steven Zaillian (“Hannibal“, “Gangs of New York“) sul soggetto di Martin Stellman e Brian Ward e sotto la supervisione di produttori del calibro di Anthony Minghella e ovviamente di Sidney Pollack, insomma non dev’essere proprio una sceneggiatura campata per aria, no?!
Ed in effetti le scelte di sceneggiatura sono davvero molto misurate, a partire dai tempi del racconto, dapprima lento e preparatorio, per poi andare in crescendo verso il 60esimo minuto con una scena veramente pregevole e per concludersi con una sequenza finale di 20 minuti in cui lo spettatore prende respiro, agguanta la coca-cola, sbarra gli occhi, lascia perdere i pop corn e inizia a succhiare il liquido magico con la cannuccia per allentare la tensione narrativa.
L’iniziale lentezza del film, che però è sapientemente propedeutica all’inevitabile iniezione dei caratteri dei personaggi nelle vene dello spettatore, potrebbe essere considerata anti-sala cinematografica, nel senso che già mi vedo la metà dei presenti che si muovono sulla poltroncina, sgranchiscono le gambe, guardano l’orologio, consultano il cellulare, eccetera.
Ma ad una più attenta considerazione di questa prima parte, si comprende la magistrale bravura delle persone che hanno lavorato alla sceneggiatura, dato che i personaggi sono delineati perfettamente, sia per la loro psicologia sia per il loro passato, i misteri e i dubbi sulle loro storie personali sono dosati magnificamente, insomma niente è fuori posto, tutto andrà ad incastrarsi nel puzzle diretto da Sidney Pollack.
Intelligente risulta anche la scelta di lasciare alcuni dialoghi in altre lingue e sottotitolarli, e parlo di dialoghi in dialetto ku, spagnolo e francese.
E questa scelta secondo me ha il merito di rendere ancora più attuale la vicenda, perché ormai il mondo è un coacervo di lingue e culture che interagiscono tra loro, che vivono sullo stesso territorio, che si integrano tra loro, basta fare un giretto a Londra per capire cosa voglio dire.

Sul fronte della regia, devo dire che sono rimasto piacevolmente colpito da Sidney Pollack, del quale probabilmente non avevo ancora visto nessun film.
Per quanto riguarda gli attori vorrei dilungarmi sulla candida bellezza di Nicole Kidman (The Others) e sul profondo blu dei suoi occhi che si stagliano su un viso pulito, leggermente accarezzato dalla bionda chioma stupendamente curata…ma non lo farò, piuttosto voglio dirvi della bravura che questa attrice ha già saputo dimostrare, interpretando ruoli eterogenei in generi diversissimi, insomma si fa presto a capire che è la mia attrice preferita.
Sean Penn offre l’ennesima buona prova negli ultimi anni, dopo “Mi chiamo Sam” e “Mystic River“, per dirne due; l’uomo distrutto dal dolore e il professionista dall’intuizione felina e dall’impeccabile tatto negoziatore gli riesce veramente bene e quando sgorga qualche lacrima da quegli occhi azzurri non si può fare a meno di contrirsi dentro.
Un personaggio secondario, ma di buono impatto sullo spettatore, quello della spalla di Keller, Dot Woods, è interpretato degnamente da Catherine Keener (“8mm, delitto a luci rosse“) e per il ruolo del tiranno matobano è stato ingaggiato Earl Cameron.

Concludendo, credo che questo thriller internazionale a sfondo diplomatico, abbia molto da insegnare, soprattutto in sede di sceneggiatura, a molti altri colleghi visti negli ultimi anni; “The Interpreter” ha inoltre il pregio di affrontare temi come pulizia etnica, diplomazia, guerriglie, pace, terrorismo, interpretariato e traduzione, adulterio e perdita di una persona cara, che sono sempre attuali, sempre difficili da affrontare, sempre decisivi nella vita delle persone e anche determinanti per la vita del nostro mondo attuale. 

Adriano Lo Porto, Dicembre 2005

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