Recensione film horror The Hitcher

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THE HITCHER

locandina REGIA: Robert Harmon.
SCENEGGIATURA: Eric Red.
CAST: C. Thomas Howell, Rutger Hauer, Jennifer Jason Leigh, Jeffrey DeMunn.
MUSICHE: Mark Isham.
ORIGINE: U.S.A. 1986.
DURATA: 97 minuti.

HIGHWAY TO HELL, o
“MIA MADRE DICE SEMPRE DI NON FARLO”.

«All our times have come
Here but now they’re gone
Seasons don’t fear the reaper
Nor do the wind, the sun or the rain…
We can be like they are
Come on baby… don’t fear the reaper
Baby take my hand… don’t fear the reaper
We’ll be able to fly… don’t fear the reaper
Baby I’m your man…»

(“Don’t fear the reaper”, Blue Oyster Cult)

Può capitare che nella fiorita poetica dell’on the road si inserisca, di prepotenza, il male. E questo male non è un demonio letterario, intriso e composto di contrasti e contraddizioni: ma è un’incarnazione pura, totale, irrefutabile. Può capitare che quella che doveva essere una variante del pattern King-Spielberg di “The Duel” divenga invece un cortocircuito di un paradigma e di una filosofia: “The Hitcher” è così un film che demistifica e contamina il culto dell’on the road e al contempo ospita una nuova, splendida apparizione del Maligno. La superba interpretazione di Roy Batty, al secolo Rutger Hauer, nel ruolo del tenebroso e misterioso John Ryder regala al pubblico un personaggio archetipico ed estremo che difficilmente potrà essere dimenticato.

La colonna sonora di Mark Isham, raffinata dalla presenza della sempre godibile e rabbiosa “Don’t fear the reaper” dei Blue Oyster Cult, s’insinua di prepotenza nell’immaginario dello spettatore: germoglieranno nuovi fiori, il profumo si spargerà nel deserto: e nel silenzio giureremo, guardando oltre gli antichi limiti del nostro sguardo, che non abbiamo più paura della morte.

Trama.

È notte. Una pioggia torrenziale non dà tregua ai viaggiatori. Jim (C. Thomas Howell) sta guidando la macchina: non riesce a distinguere la strada avanti a sé. Lotta, oltretutto, con i primi, micidiali colpi di sonno. Scampa, per un soffio, a un frontale con un tir: un riflesso gli consente di scartare a pochi metri dall’impatto. Si guarda attorno: visibilità ridottissima, pioggia battente, buio fitto. Decisamente difficile guidare in quelle condizioni.

Sul ciglio della highway, avvolto in un cappotto lungo, indifferente al freddo un fradicio autostoppista chiede un passaggio. Jim pensa che, avendo compagnia, almeno i colpi di sonno saranno scacciati.

“Mia madre dice sempre di non farlo”, dice, sorridendo, all’estraneo che sale a bordo, gocciolando.

John Ryder (Rutger Hauer) non risponde alle sue domande, o risponde per monosillabi. Qualche chilometro più avanti c’è una macchina ferma. John impedisce al ragazzo di fermarsi, non deve scendere. Perché non deve vedere quel che ha appena fatto. Ha tagliato gambe e braccia al conducente. Poi, gli ha mozzato la testa. E adesso, promette, “farò altrettanto con te”.

Jim ha paura. John ha uno sguardo glaciale, una determinazione e una cattiveria non umana. Vuole essere fermato. Nessuno è in grado di fermarlo. Adesso gli sta puntando un coltello alla gola, e gli chiede di ripetere: “Io voglio morire”. Fine del viaggio per il giovane Jim, che doveva solo consegnare una macchina a San Diego e tornare a casa, a Chicago? Non ancora. L’istinto di sopravvivenza prevale: riesce a spintonare Ryder fuori dall’abitacolo.

Il giorno dopo, in una cornice luminosa e solare, il ragazzo di Chicago sta guidando, ancora adrenalinico. Di fronte a sé, la macchina di una famigliola. Dal sedile posteriore, una bambina gli mostra un orsacchiotto. Jim ridacchia e risponde al gioco. A un punto, l’orsacchiotto scompare e spunta il viso di John Ryder.

Non è che il principio di un confronto-scontro serrato: Jim cercherà di affrontare l’autostoppista, di impedirgli di uccidere ancora; ma si troverà, in compenso, incastrato con l’accusa di essere stato lui a uccidere decine di persone. L’unica persona che gli crederà sarà una ragazza (Jennifer Jason Leigh) incontrata in un bar: si troverà al suo fianco perfino quando Jim sarà braccato dalla polizia. È un incubo che sembra non conoscere fine: Ryder non vuole ucciderlo, vuole sfidarlo. O forse vuole semplicemente che Jim divenga come lui. Un angelo della morte.

Non sapremo mai chi in realtà sia John Ryder, né da dove venga. Sembra non avere passato e uccidere per il semplice gusto di uccidere: esattamente come John Doe, l’assassino di “Seven” di Fincher. I due film hanno in comune la disperata ricerca del serial killer d’un rivale “buono” che vada non solo sfidato, ma, in un certo qual modo, “richiamato” alla loro causa; in entrambi i casi, in un certo senso, l’impresa riesce. Nessuno vuole nominare l’origine del male: né Harmon, né Fincher raccontano nulla (o quasi) che non appartenga al presente dell’assassino.

Il male appare, ed esiste come se sempre fosse esistito: distrugge e annienta, e domanda solo d’essere arrestato.

Appunti.

“The Hitcher” è il primo lungometraggio di Robert Harmon: considerando il resto della sua produzione, dal recente, sconclusionato “They” al temibile “Nowhere to Run” con mister Van Damme, possiamo tranquillamente ricordarlo come l’unico film di Robert Harmon. Peccato, perché sembrava davvero che potesse diventare uno dei registi-cult del cinema fantastico.

“The Hitcher” ha avuto un sequel: per la regia di Louis Morneau, nel 2003 è uscito “The Hitcher II: I’ve Been Waiting”. Thomas Howell torna a vestire i panni di Jim Halsey: viaggia verso il Texas con la sua compagna per andare a trovare un amico e affrontare il suo passato. Sulla strada, decide intelligentemente di dare un passaggio a un diabolico autostoppista, e…

A dar retta ai commenti del pubblico statunitense e canadese pubblicati su imdb, è uno dei peggiori sequel di sempre. Prendiamoli in parola e rimaniamo fedeli all’originale: non dovrebbe essere eccessivamente faticoso.

Gianfranco Franchi (Lankelot.com) Novembre 2003

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