Recensione film horror The Elephant Man
Regia: David Lynch
Sceneggiatura: Christopher De Vore, Eric Bergren, David Lynch
Attori: Anthony Hopkins, John Hurt, Anne Bancroft
Produzione: Gran Bretagna, 1980
Durata: 125’
Voto: 10/10
Nell’Inghilterra vittoriana, polo di attrazione del popolino sono i fenomeni da baraccone: nani, gemelli siamesi, donne barbute. John Merrick, affetto da una grave malformazione al cranio e da escrescenze tumorali su tutto il corpo è “l’uomo elefante” che attrae e disgusta la gente ed è sfruttato da un ubriacone senza scrupoli che lo chiama “il mio tesoro” (niente di nuovo nel leitmotiv di Gollum). Un medico filantropo si prenderà a cuore il suo destino, scoprendo che Merrick ha gusto e sensibilità molto sviluppate, e facendogli provare per breve tempo la gioia di vivere una vera esistenza umana.
LO SGUARDO DELLA GENTE SUL MOSTRO. Seconda opera del canadese David Lynch, dopo “Eraserhead” (un altro film che ha come tema la paura del diverso e del sovrumano), “The Elephant Man” è interamente girato in studio e in un vivido bianco e nero, magnifico lavoro del direttore della fotografia Freddie Francis. Basato su una storia vera, come riportano i titoli di coda, e non avente niente a che vedere con l’opera teatrale di Bernard Pomerance (dalla quale invece è stato tratto un telefilm), la struttura del film è incentrata sullo sguardo della gente verso l’uomo elefante e sullo sguardo di John Merrick (John Hurt) verso il popolo. Disgusto, compiacimento, paura, schifo, voyeurismo, curiosità e perché no anche pornografia, laddove per pornografia, nella sua accezione originaria, si intende guardare il proibito e l’indicibile (quindi, per chi non lo sapesse, non necessariamente il sesso). Quanto il popolo ha paura e disgusto di Merrick, tanto l’uomo elefante ha paura di far paura agli altri: non essendosi mai visto allo specchio (tranne in una scena, verso la fine del film, quando prende coscienza totale del suo aspetto), Merrick può solo immaginare come sia la sua mostruosità, basandosi solamente sul giudizio della gente e sulla repulsione che questi provano verso di lui.
Dopo essere stato usato come attrazione da circo, Merrick verrà “salvato” dal medico Frederick Treves (Anthony Hopkins) che gli troverà delle stanze in un ospedale londinese, dove John potrà vivere dignitosamente dedicandosi a ciò gli piace. Riceve la visita dell’attrice più in voga nella Londra di fine ‘800, la signora Kendall (Anne Bancroft), che si servirà di lui come propaganda pubblicitaria per se stessa, attirando così l’attenzione dei nobili inglesi, mossi superficialmente da spirito compassionevole, ma in realtà guidati dal loro senso di appagamento o di disgusto nel guardare l’uomo elefante (importante la scena dove una nobildonna ha quasi il volta stomaco nel ricevere una tazza di tè da Merrick).
LO SGUARDO DEL MOSTRO SULLA GENTE. Nella stragrande maggioranza dei film il mostro è colui che fa paura all’uomo e che non ha paura dell’uomo. In “The Elephant man” il primo ad avere paura è John Merrick: sa di far paura e questo gli fa orrore. Quando si esibisce nei suoi spettacoli da baraccone egli vede gli sguardi disgustati e allo stesso tempo compiaciuti della gente. Durante tutto il film Merrick continuerà ad essere oppresso e torturato dal popolo che lo vuole guardare. Nel film, Lynch mostra come chi guarda sia spaventato ma allo stesso tempo provi piacere nel guardare l’orribile, un piacere quasi erotico: si pensi alla sequenza durante la quale il guardiano dell’ospedale porta gli amici a far visita a Merrick e un ubriacone con due prostitute goda nel vederle strusciarsi sull’uomo elefante. Quanto attuale è questo argomento? Pensiamo a tutto ciò che può essere visionato su internet, dai morti per incidenti stradali in primo piano, alle violenze verso ragazzi handicappati e animali, a orrori e bruttezze indicibili! Pensiamo a quei milioni di utenti di You tube e altri motori di ricerca che visionano queste immagini per milioni di volte: che cosa ci trovano? Quale piacere ne traggono? E’ solo informazione? O è altro? In “The elephant man” è quello che cerca di spiegare Lynch: che cosa si prova a guardare l’uomo elefante? Ed è quello che si domanda John Merrick: perchè la gente vuole guardarmi?
Risponderà lui alla fine del film, opponendosi a quell’oppressione continua dello sguardo degli altri su di lui: “non sono l’uomo elefante! Sono un essere umano!”
Da anni c’è un dibattito tra gli studiosi: che cos’è un genere? Quanti generi cinematografici esistono e quali sono i confini di genere entro i quali si può classificare un film?
A che genere cinematografico appartiene “The Elephant man”? Difficile classificare un film di David Lynch.
“The Elephant man” appare, nelle sue prime sequenze, come un film dell’orrore (non un horror odierno, si badi bene) dei primi del novecento: nebbia, strade buie e bagnate, loschi personaggi e foschi flash back sulla sorte della madre di Merrick. L’uomo elefante non si vede subito. Appare nella sua bruttezza a Hopkins, quando questi chiede al suo sfruttatore di poterlo vedere. Noi spettatori osserviamo la reazione del medico: è spaventato e piange. Poi lo vedono alcuni dottori, durante una conferenza di anatomia: curiosità, disgusto e stupore.
Noi spettatori sentiamo i suoi grugniti, il suo respiro animalesco, lo vediamo camminare strascicando la gamba. Insomma per i primi venti minuti di film Merrick ci viene presentato come un terribile mostro, cattivo e pericoloso e ci si aspetta che prima o poi appaia Nosferatu o Frankenstein. La prima volta che ci viene mostrato bene è quando un’infermiera gli porta la colazione: lei si spaventa, urla, lui si terrorizza ancora di più e si nasconde sotto le coperte.
Merrick ha paura di far paura. C’è qualcosa di vagamente terribile e orrorifico nella rappresentazione della paura del protagonista. L’uomo elefante ci appare come un essere indifeso, un bambino abusato, alla ricerca di protezione. Merrick parla, si esprime in maniera quasi perfetta, conosce a memoria passi della Bibbia, ha gusto in fatto di teatro, eppure quando subisce soprusi e violenze, tace, incapace di tradurre in parole il disagio e il dolore di quella violenza. Subisce in silenzio, mentre il personaggio interpretato da Hopkins e la capo infermiera (gli unici che abbiamo veramente a cuore il suo destino) ignorano ciò che accade di notte in ospedale. E’ quasi come se Lynch impedisse a Merrick di difendersi (in fin dei conti basterebbe che lui riferisca alla capo infermiera dei soprusi che gli inferisce il guardiano) e invece non gli offre la possibilità di confidarsi con i suoi unici amici. Il cinema di Lynch è costellato di questi personaggi, un po’ freak, destinati ad “immutabile mutismo”, incapaci di un dialogo con la realtà che li circondi: “Twin Peaks” ne è un esempio.
Allora che tipo di cinema è quello di David Lynch?
Ed infine ecco alcune curiosità:“The elephant man” è stato prodotto da Mel Brooks, marito di Anne Bancroft, attrice italo-americana morta di recente; John Hurt ha dovuto sottoporsi a sette ore di trucco per il raffinato maquillage, ideato da Christopher Tucker; il film fu candidato a ben otto premi Oscar e ovviamente non ne vinse nemmeno uno.
Violetta Armanini, 15.06.2007