Recensione film horror ProfondoRosso

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PROFONDO ROSSO

locandina

ANNO: 1975
DURATA: 130′
REGIA: Dario Argento
CAST: David Hemmings, Daria Nicolodi, Gabriele Lavia, Macha Méril, Eros Pagni, Giuliana Calandra, Piero Mazzinghi, Glauco Mauri

Voto: 10/10

Una scena di tanti anni prima… in una antica casa viene commesso un delitto, sotto gli occhi terrorizzati di un bambino… Anni dopo, un congresso di parapsicologia… Helga Ulman è una sensitiva che afferma di poter sentire i pensieri degli altri. Ma, proprio mentre sta parlando, incomincia ad urlare disperata: ha percepito pensieri maligni da una delle persone presenti in sala…
La notte stessa Helga viene uccisa; Marc (David Hemmings), pianista inglese che vive a Roma e abita nel suo stesso palazzo, assiste all’assassinio mentre, sotto casa, sta chiacchierando con l’amico Carlo (Gabriele Lavia). Prova a soccorrere Helga, ma non c’è più nulla da fare mentre l’assassino si allontana nel suo impermeabile nero…
Marc, con l’aiuto di Gianna Brezzi (Daria Nicolodi), giovane giornalista dall’aria aggressiva e determinata, tenta di venire a capo di questa storia, ma l’assassino continua la sua “opera”, in una serie di delitti che in apparenza non hanno alcun legame tra di loro ma in realtà fanno parte di un “piano” che, nella sua lucida follia, ha elaborato per eliminare le tracce di un delitto da lui stesso commesso molti anni prima. La chiave di tutto è in un’inquietante villa abbandonata, dove Marc si recherà in cerca di qualcosa che lo aiuti a comprendere il senso di questa storia, che troverà in una stanza murata tanti anni prima, ma la verità non è quella che sembra…
Considerato il “cult” per eccellenza dell’horror italiano, “Profondo Rosso” uscì nelle sale nel 1975, dopo il successo dei tre precedenti film di Argento (“L’uccello dalle piume di cristallo”, “Il gatto a nove code” e “Quattro mosche di velluto grigio”) che però erano “gialli” in senso più letterale. In questo film, invece, assistiamo a delle vere e proprie esplosioni di violenza allo stato puro tra coltellate, teste fracassate e schizzi di sangue in abbondanza, mentre una mobilissima macchina da presa inquadra di volta in volta i dettagli più macabri oppure si sofferma su elementi che possano aiutare a capire il senso della vicenda. Argento ama a volte soffermarsi su oggetti banalmente “horror” (bambole trafitte da spilloni, quadri dal soggetto inquietante, coltelli) ma, nonostante questo, riesce decisamente a tenere viva l’attenzione, mescolando sapientemente trovate a volte geniali (il vapore sullo specchio nella scena dell’omicidio di Amanda, l’assassino che entra in casa di Marc mentre questi suona il piano… adrenalina pura!!!), riprese da angoli diversi dello stesso soggetto e soprattutto, secondo me, la musica ossessiva dei Goblin che riesce a dare “corpo” all’orrore del quale Argento mostra il volto.
Curatissime anche le “location”: nonostante la storia sia ambientata a Roma, il regista riesce a ricostruire, “prendendo” piazze, strade e palazzi tra Roma e Torino, una città da incubo, dai colori cupi e dagli sfondi inquietanti (è proprio a Torino che si trova la villa in cui è custodita la chiave del mistero…).

Bisogna però dire che la sceneggiatura non è delle migliori (diciamo… che si intuisce quasi subito chi sia l’assassino!) ma, nonostante questo, il film si è comunque conquistato un posto di primo piano nell’immaginario collettivo, degli anni Settanta e non solo. A tutt’oggi, secondo me, resta ineguagliato e lo stesso regista, nonostante il buon livello raggiunto da alcune delle pellicole successive (i vari “Suspiria”, “Inferno”, “Tenebre”, venuti negli anni a seguire), non è riuscito a ripetere l’enorme successo di questa pellicola.
Piuttosto indovinato il cast, con qualche tocco di ironia qua e là: la Gianna di Daria Nicolodi che si atteggia ad emancipata femminista ma non fa altro che ripetere la frase “Solo perchè al momento non ho un ragazzo…”, il burbero commissario e, soprattutto, l’inquietante madre di Carlo, ex attrice impersonata da Clara Calamai: gustosa, tra l’altro, la scena in cui parla ad un telefono… bianco! (le “dive dei telefoni bianchi… ricordate?).
Certo, se consideriamo le singole “componenti” della pellicola (una sceneggiatura con qualche “lacuna di troppo, le inquadrature “maniacali”, a tratti una certa lentezza che rischia di appesantire l’insieme) si direbbe… nulla di esaltante! Eppure, chissà per quale strana alchimia, la somma di questi elementi ci dà quello che, a mio avviso (e non solo!) è stato definito il capolavoro dell’horror italiano!

Da vedere!!!

Andrea Del Gaudio (ciao.it) 03.03.2004

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