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REGIA: Byeong-Ki Ahn.
SCENEGGIATURA: Byeong-Ki Ahn.
CAST: HaJi-Won, Kim Yoo-Mi, Choi Woo-Jae, Choi Ji-Yeon, Eun Seo-Woo.
ORIGINE: Korea 2002
DURATA: 100 minuti.
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HO LA LINEA INFESTATA, TI CHIAMO DOPO
Nel caso di “Ringu” (1998) di Hideo Nakata il pubblico europeo ha avuto bisogno, prima d’avvicinarsi all’originale, di un remake occidentalizzato: “The Ring” (2002), di Gore Verbinski. Una volta appurato che la versione americana non rappresentava altro che una pleonastica alterazione d’un film di discreto livello, s’è forse interiorizzata la lezione. Esce così sui nostri schermi, direttamente e senza “variazioni etnico-estetiche”, il film di un regista della Corea del Sud, Byeong-Ki Ahn. Con due anni di ritardo – ma esce.
La scelta d’accostare “Ringu” a questo “Phone” non è ovviamente casuale: si tratta di due pellicole dello stesso genere – gotico “introspettivo”, contraddistinto da una accettazione della “logica del soprannaturale” che, per intenderci, a intervalli irregolari torna negli script del cinema occidentale – ultimo e non felicissimo esempio, “Gothika” di Mathieu Kassovitz.
“Phone” non è soltanto una ghost story (sponsorizzata da Evian e Hyunday, parrebbe: qualcuno avverta le aziende che la sovraesposizione dei marchi è assolutamente irritante): si rivela a un tratto irreale e incerto dramma sentimentale, sovrapponendo e giustapponendo ritmi e registri differenti a un film di genere che probabilmente paga con una lacunosa linearità l’eccessiva contaminazione.
La narrazione s’articola tra false piste, sospensioni, esplosioni, digressioni, approfondimenti e apparizioni, in un caos disarmante, frammentato da dialoghi che occasionalmente risultano piuttosto didascalici e involontariamente grotteschi.
Al principio della storia, la giovane giornalista Ji-won (Ha Ji-Won), reduce da una pericolosa inchiesta sul dilagante fenomeno della pedofilia, affronta le minacce (sempre meno telefoniche e virtuali) d’un maniaco. Riceve le telefonate sul suo nuovo telefonino: alla voce del suo persecutore s’alternano però, in altri frangenti, le terribili grida d’una donna sconosciuta.
Una coppia di amici le propone di trasferirsi in una loro abitazione ancora sfitta: così, dopo aver tatticamente cambiato il numero del cellulare, la ragazza trasloca. Le stranezze non accennano a terminare: strani arresti del sistema nel suo computer, bloccato su una immutabile sequenza numerica (sfondo: Matrix), misteriose telefonate provenienti da un numero invisibile, percezione di “presenze” in casa. Come se non bastasse, la figlia dei suoi amici, la piccola Young-Ju (Eun Seo-Woo), risponde per sbaglio ad una di queste inquietanti telefonate e, sconvolta e terrorizzata, comincia a gridare a squarciagola. Di lì a poco, tra disordini affettivi, turbe comportamentali e una serie di precocissime crisi di nervi, la bambina preoccuperà – a ragione – i suoi genitori.
Ji-won, nel frattempo, sempre meno convinta della razionalità di quel che sta accadendo, perplessa per i diabolici e irrichiesti “valori aggiunti” del suo telefonino, comincia un’indagine a proposito dei vecchi possessori del suo numero. Scoprirà una catena di morti e di disgrazie – avviandosi a portare alla luce una verità davvero tragica e imprevedibile, proprio a partire da quel che era avvenuto alla prima proprietaria dell’utenza, una liceale chiamata Jin-Hie.
Il regista sudcoreano Ahn era reduce dal fortunato (in patria) esordio “Gawi” (“Nightmare”), uscito nell’estate del 2000. “Phone” è il suo secondo film. È stato realizzato dalla Toilet Pictures, fondata dal regista per sostenere la diffusione dei film dell’orrore nel suo Paese.
Ahn è un autore che, sin da questa prova, sembra dimostrare eclettismo: non teme il disordine derivante da un’eccessiva ricchezza di argomenti e tematiche (al termine della pellicola, contiamo: pedofilia, manie ossessive, tradimento, inseminazione artificiale, complesso d’Elettra, gelosia, possesso, ipocrisia borghese: possibile? possibile) e mostra una propensione alla commistione di generi che senza dubbio promette bene per il futuro. Sulla strada per rinnovare e approfondire le relazioni tra “reale” e “soprannaturale”, il cinema orientale ostenta la sua vocazione alla imitatio cum variatione di struttura, forma e linguaggi del cinema occidentale. La questione è che, negli anni, le tante variazioni potranno davvero originare un progetto – e adesso usiamo un aggettivo “pericoloso”, con tutte le cautele del caso – originale. Attendiamo.
Non fatico a prevedere un discreto successo di “Phone” nel noleggio domestico, a partire dall’autunno del 2004 (gioioso horror da divano: ma non solo)
Una curiosità letteraria: questo film rivela al disinformato pubblico italiano che “Per voce sola” della Tamaro è un best-seller in Sud Corea. Increduli? Vedere per credere.
Gianfranco Franchi (Lankelot.com) Giugno 2004
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