Recensione film horror Mystic River
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Brian Helgeland (tratto dal romanzo omonimo di Tennis Lehane)
Attori: Sean Penn, Tim Robbins, Kevin Bacon
Produzione: U.S.A. 2003
Durata: 135′
Voto: 9.5/10
Mystic River” è stato per me uno di quei film che sentivo a pelle mi sarebbe molto piaciuto, ma del quale ho inevitabilmente posticipato sempre la visione, forse proprio per paura di disincantare il mio entusiasmo a priori verso questa pellicola.
L’altro giorno l’ho visto e non ha disatteso in alcun modo le mie aspettative; nonostante avessi letto decine di recensioni e ormai mi fossi rappresentato nitidamente l’ultradescritta prima scena del film, questa visione mi ha davvero soddisfatto sotto tutti i punti di vista.
Veniamo alla prima, ormai mitica scena iniziale di questo film, che vede tre ragazzini esercitarsi lungo una strada deserta in uno dei tanti sport nazionali americani, l’hockey.
Jimmy, il più strafottente e delinquente dei tre, decide, per vincere la noia che li avrebbe assaliti dopo che l’ennesima pallina era caduta nelle fogne, di provare l’ebbrezza di scrivere il proprio nome sul materiale fresco del marciapiede.
Sean, un po’ più avvezzo alle norme rispetto all’amichetto, ma comunque abbastanza intraprendente, lo segue a ruota, mentre Dave, il cagasotto della situazione esita qualche secondo di troppo.
Così, quando il suo brevissimo nome è solamente a metà, sopraggiunge un auto, dalla quale discende un signore sulla cinquantina ostentando sicurezza da poliziotto.
Fingendosi un funzionario del comune offeso materialmente e moralmente dalla bravata dei tre ragazzini, l’uomo sceglie il ragazzino più lontano da casa (e anche il più visibilmente cagasotto) per mettere in atto il suo rapimento a scopi pedofili, coadiuvato da un navigato sacerdote che appiccica addosso a Dave un sorriso a pochissimi denti unito alla brillantezza del suo anello clericale.
Da brividi gli importantissimi cinque secondi che vedono da una parte i due attoniti ragazzini che guardano la macchina allontanarsi e dall’altra il piccolo Dave che dal lunotto posteriore osserva i suoi due amici, come a chiedere spiegazioni, come a chiedere perché sia toccato proprio a lui e non a Sean o a Jimmy…
Passano all’incirca tre decadi e i tre amici di vecchia datata si sono nel frattempo persi di vista, “ognuno col suo viaggio, ognuno diverso”, ognuno sposato, ognuno con i suoi problemi vecchi e nuovi, ma tutti ancora indelebilmente uniti da quel giorno in cui due uomini portarono via Dave.
Jimmy ha coltivato negli anni la sua prerogativa di delinquente nel trio di amici ed è stato anche dentro per qualche anno; porta avanti in modo losco gli affari di un minimarket e intrattiene amicizie con delinquenti di ogni sorta che fungono da suoi scagnozzi in ogni occasione.
Dal suo primo matrimonio (moglie deceduta) è nata Katie e la sua moglie attuale gli ha dato altre due bambine da crescere in questo ambiente familiare poco raccomandabile.
Sean è diventato detective della squadra omicidi, svolge il suo lavoro con grande professionalità e con ottimi risultati, coadiuvato dal suo compagno Whitey (ironia sul nome visto che è interpretato dal Morpheus di Matrix); unico neo nella sua vita sembra essere l’ex moglie, che fuggita di casa con la figlioletta neonata che il marito non ha mai visto, continua ad ossessionarlo chiamandolo al cellulare e non spiccicando nemmeno una parola, aspettando che sia lui, con il suo tono mite e la proverbiale pazienza a farsi domande e a rispondersi, a fare considerazioni sulla loro relazione impossibile.
Dave invece non si è mai ripreso da quell’episodio che ha distrutto la sua infanzia e segnato indelebilmente la sua intera vita; sua moglie ignora la martoriante esperienza che ha dovuto subire e che influisce in modo estremamente ossessivo sulla sua psicologia.
Il figlioletto nato da questo matrimonio che non sarà mai sincero fino in fondo, dà al padre le soddisfazioni che lui ha fallito da piccolo e involontariamente gli fa riaffiorare ogni singolo istante i brutti ricordi legati a quell’episodio.
Il figlioletto non immagina che dietro a quelle strane storie sui licantropi e sui vampiri che il padre gli racconta per farlo addormentare, ci sia una simbologia della sua condizione di lottatore solitario contro un mondo che non lo vuole aiutare, che non lo vuole capire e che lo emargina con ogni mezzo in suo possesso.
Qui ci vuole un filo conduttore che riavvicini a sé i tre ragazzini che da piccoli giocavano a hockey sulla strada, tre ragazzini che non hanno dimenticato quell’episodio e che in una sorta di riproposizione del refrain di “Sliding Doors” continuano a chiedersi come mai sia toccato proprio a Dave e non a Sean o a Jimmy.
L’episodio che riunifica i destini dei tre è l’omicidio della primogenita di Jimmy, Katie, un caso al quale lavora inevitabilmente Sean con il suo prode compagno e con il quale inevitabilmente Dave ha qualcosa a che fare, non foss’altro che è stato una delle ultime persone a vederla viva.
La pedofilia è il primo tema in ordine cronologico che gli autori ci sbattono in faccia e se posso permettermi una critica, devo obiettare sul semplicistico e per nulla approfondito coinvolgimento del sacerdote in questa vicenda, come a dire che in un qualsiasi episodio di pedofilia X c’è sempre un prete X coinvolto…troppo generalizzante per i miei gusti.
Ben affrontato e descritto è invece il dramma psicologico che deve essere fronteggiato dalle vittime della pedofilia; l’accento sta soprattutto sul fatto che il dramma non si supera nella fase adolescenziale, non si supera grazie a qualche anno di terapia (anche se non se ne fa alcun accenno), non si supera grazie ad un matrimonio più o meno felice, non si supera grazie al concepimento ed all’allevamento di un figlio; il grido straziante di questo film è che probabilmente non si supererà mai questo dramma e in questo aspetto sta l’importanza del messaggio trasmesso.
Altri due temi che gli autori del film hanno voluto mettere in risalto sono senza dubbio quelli che concernono i valori dell’amicizia e del matrimonio; ciò che mi ha più colpito è stato però il modo di trattare questi temi che non ha nulla a che fare con il solito tono da ramanzina per riportare sulla retta via i peccatori.
In questo film ci si pone delle domande su questi due temi e le risposte non sono date come pappetta preriscaldata dagli eventi mostrati o dalle massime pronunciate dagli interpreti, bensì sono risposte che devono venire dal pubblico e che quindi non sono univocamente rintracciabili, ma dipendono dalle personalissime riflessioni che ogni spettatore vorrà produrre in seguito a quello che ha visto, in seguito a quello che ci viene iniettato sottopelle dalla visione di questo film.
Per spiegarmi meglio, voglio provare ad esplicitare alcune di queste domande:
Come ci si deve comportare con degli amici di vecchia data a cui si fa fatica addirittura a fare un saluto?
E’ giusto coprire per amore il proprio marito anche quando si è certi della sua colpevolezza?
Ed è giusto per amore incitare il marito a non soffermarsi sui suoi crimini?
Da non sottovalutare infine l’importanza che il dolore e la sua rappresentazione rivestono in questo film; Sean Penn è arrivato all’Oscar proprio perché ha saputo dipingere sul suo volto il dolore struggente di un uomo colpito al cuore da una disgrazia dal volto duplice.
Quello del padre non è però l’unico dolore descritto da Clint Eastwood, perché c’è innanzitutto il dolore che colpisce fisicamente e psicologicamente Dave da quel famigerato giorno della sua infanzia, c’è il dolore di Sean per la consapevolezza che sua moglie lo ama ancora, il dolore che impedisce alla moglie di Sean di parlargli, il dolore che ha impedito all’amicizia tra i tre ragazzini di continuare a splendere, il dolore che colpisce un intero quartiere alla scomparsa di Katie.
Passando per un attimo agli aspetti tecnici di questa pellicola il mio plauso maggiore va all’adattamento per il cinema che Brian Helgeland ha realizzato del libro di Dennis Lehane, un bel 10 alla sceneggiatura non glielo leva nessuno.
Per quanto riguarda la regia di Clint Eastwood non ho nulla da criticare e ci mancherebbe (io povero neonato recensore contro l’esperienza decennale di grande cinema del grande Clint), mentre una mezza statuetta almeno l’avrei data anche per la colonna sonora curata dallo stesso regista.
Quella mezza statuetta l’avrei invece sottratta dalle mani di Tim Robbins, perché sebbene il suo personaggio meriti decisamente i favori del pubblico, non credo fosse così meritevole da ottenere l’Oscar per il Miglior Attore non Protagonista; per dirla tutta, io gli avrei preferito l’asciutto e scavatissimo Kevin Bacon che interpreta senza sbavature il detective afflitto da problemi coniugali.
A completare il trio di amici protagonisti della pellicola, ecco Sean Penn, giustamente premiato con l’Oscar come Miglior Attore per questa devastante interpretazione.
Tra gli altri comprimari una citazione per le due mogli Laura Linney e Marcia Gray Harden e per il riscoperto e “dematrixato” Laurence Fishburne che interpreta l’inflessibile detective Whitey.
In conclusione credo, come già sottolineato da una marea di recensioni precedenti alla mia, che questo sia un film per tutti gli amanti del cinema, delle forti emozioni e delle storie profonde, un film per un pubblico il più possibile eterogeneo che grazie alla sua carica emotiva, alla tensione crescente e all’ottima fase realizzativa piacerà più o meno a tutti, garantito.
Adriano Lo Porto Gennaio 2005