Recensione film horror La Terza Madre

Recensioni

locandinaRegia: Dario Argento
Sceneggiatura: Dario Argento, Jace Anderson, Walter Fasano, Adam Gierasch, Simona Simonetti
Attori: Asia Argento, Udo Kier, Daria Nicolodi
Produzione: Italia, 2006
Durata: 98′
Note: Vietato ai Minori di anni 14

Questo film è stato recensito, eccezionalmente, da due collaboratori di OcchiRossi.it. La prima recensione è di Violetta Armanini, la seconda è di Federico Magi.


Voto: 4/10

Pochi registi mi terrorizzano come Dario Argento, anzi probabilmente è l’unico.
E decidere di andare a vedere al cinema “La Terza Madre” la notte di Halloween non è una saggia idea, per tre motivi: primo, al cinema sei al buio, in mezzo ad altre persone e chi ha letto “Buio in Sala” sa cosa intendo; secondo,  non essendo a casa tua non hai nemmeno il cuscino per nascondere gli occhi durante le sequenze più cruente, non puoi alzarti per andare a farti un panino, non puoi fumarti una sigaretta, eccetera; terzo, Halloween, ahimè, sta diventando una festa per tredicenni, quindi si corre il rischio, uscendo, di incontrarne a frotte, che affollano locali e che qualche volta possono decidere di andare al cinema a guardare Dario Argento e ridere a crepapelle di fronte a certe immagini, per farsi un po’ di coraggio.

Comunque, cominciamo dalla trama. Una giovane stagista, Sara Mandi, viene a contatto con un’antica urna contenente un peplo stregato. Roma cade nella follia più totale, mentre nei suoi sotterranei si riuniscono tutte le streghe del mondo per venerare la loro regina, la terribile Mater Lacrimarum. La ragazza cercherà di fermare lo scempio dell’umanità, grazie a doti magiche fino ad allora ancora sconosciute.

L’uccisione di una archeologa del museo è assolutamente splatter e io ammetto di non essere riuscita a guardarla per intero ma di essermela fatta raccontare da un moccioso, esaltatissimo, seduto accanto a me.
La prima sequenza è quella in cui entra in scena Asia Argento (Sara Mandi): look da brava ragazza, capello con messa in piega di fresco, abiti di Chanel e girocollo di perle. Ci si rende subito conto che Asia è la protagonista assoluta: il film si regge tutto sulle sue spalle. Peccato che lei, nonostante il fascino dark e la sua indiscutibile bellezza, sia e rimanga una pessima attrice. E viene da domandarsi: ma perché uno come Abel Ferrara la scrittura per i suoi film? Presto detto: il nome di Asia Argento fa botteghino.
Comunque, se siete dei vecchi fan di Argento, potete chiudere un occhio di fronte alla cattiva recitazione della figlia. Ma non si può assolutamente passare sopra al fatto che non c’è un personaggio che abbia personalità. Essi, destinati tutti a morire, sono dei fantocci, delle marionette, mosse dal regista; sono senza spessore e in alcuni casi risultano tristemente inutili alla storia. La stessa Sara non ha carattere: ci si aspetta fino all’ultimo (e io l’ho sperato) che Asia tiri fuori l’asso dalla manica e dimostri di non essere lì per caso, passata sul set de “La terza madre” per fare un saluto al padre.

Così, se sommiamo il fatto che il film ruota tutto intorno a Asia, che lei ha qualche difficoltà nel recitare e che gli altri personaggi (compresa la protagonista) sono privi di personalità, si esce dalla sala con l’amaro in bocca e una domanda: che cosa rimane di questo film?
Rimane qualche pennellata di puro cinema.
Rimangono le licenze autoriali a cui Argento ci aveva abituati così bene ai suoi esordi.
Rimangono i lunghi piani sequenza girati all’interno della villa della strega.
Rimangono le inquadrature che braccano il protagonista alle spalle.
Rimangono le riprese in notturna dal basso verso l’altro della Capitale.
Rimangono le sempre inquietanti musiche del fedele Claudio Simonetti.
E rimane, quando si esce dalla sala, la visione apocalittica di una Roma che viene invasa dai nuovi barbari; di una Roma, La Città Eterna, che come nel 1527 viene violata in nome degli dei pagani e saccheggiata di quel sacro e immacolato che ancora rimane (muoiono preti e bambini).
Rimane l’immagine di una Roma che pullula di atti di violenza, così attuale, che pare quasi un monito o forse un presagio.
Rimane la certezza di un’innocenza perduta, dove le madri sgozzano i figli e poi piangono.
Ma non basta questo per fare de “La terza madre” un bel film o quanto meno un film riuscito.

Girato tra Roma e Torino (città argentiana per eccellenza) in soli due mesi, “La terza madre” vede il ritorno sul grande schermo di Daria Nicolodi (madre di Asia e protagonista di altri film di Argento, uno su tutti “Profondo Rosso“), nei panni della mamma di Sara, che si manifesta alla figlia sotto forma di spirito avvolto da una luce azzurrina, un po’ angelo custode, un po’ mentore virgiliano. A me personalmente è apparso molto disneyano, anche perché viene richiamato nella dimensione dei vivi, la prima volta, grazie ad un soffio di cipria (ma che è? Che significato ha?).
Alcune sequenze sono girate in digitale e il montaggio di queste ultime è pessimo perché oltre a notarsi palesemente, crea un contrasto stridente con quelle girate in pellicola, vedi sequenza con la casa della strega che viene risucchiata nelle viscere della terra.
Moran Atias è accreditata come Mater Lacrimarum e recentemente è apparsa su una rivista patinata una sua intervista dove viene dipinta (non per colpa sua, ma del giornalista) come promessa del cinema italiana: speranza non vana per una che pronuncerà sì e no un paio di battute e la somma dei fotogrammi in cui è presente arriva al massimo cinque.
Special guests, oltre a Daria Nicolodi, sono Udo Kier già presente in “Suspiria”  e Philippe Leroy. Il resto del cast è pressoché sconosciuto.
La terza madre” va a chiudere una trilogia, iniziata con “Suspiria” (1977) e proseguita con “Inferno” (1980 ), che ha visto Argento intraprendere la strada  dell’occulto e del soprannaturale.
Le differenze tra quest’ultimo e “La Terza madre” sono notevoli e non perché “Inferno” sia un ottimo film, anzi… Eppure si tratta di un’opera di grande fascino dove ad Argento piaceva ancora giocare con la macchina da presa: lunghissimi piani sequenza, fotografia dalle tinte forti, cura nei particolari, zoom sui dettagli alla Bergman e una pregevole direzione attoriale. Tutti elementi che, ahimè, in gran parte mancano in questo ultimo lavoro di Dario Argento.
Non c’è continuità tra questi tre film, c’è un gap: i trent’anni di differenza pesano tutti.

Comunque, in alcuni istanti, Argento è ancora capace di terrorizzare, ad esempio con il più banale degli escamotage: un mostro che appare all’improvviso. Io ho urlato. Nel buio della sala, dove il tuo subconscio emerge e per un paio d’ore prende il sopravvento sul conscio.

Violetta Armanini 13.11.2007


II Recensione

voto: ../10

Prima di tutto il dato storico-cinematografico: “La terza madre” è l’opera conclusiva di una trilogia che fu immaginata trent’anni orsono, che prese il via con “Suspiria” (1977), la pellicola più nota oltre confine del maestro dell’horror nostrano, e proseguì con “Inferno” (1980), terrificante compendio delle ossessioni del regista. A ben 27 anni di distanza, e dopo l’abbondante ultimo decennio di pellicole affatto memorabili, Dario Argento decide di tornare sui sentieri della follia e del sangue, immaginando una conclusione in cui l’orrore assume forma piena e totalizzante, nel tentativo di rinverdire i fasti di un cinema che, dagli anni Novanta in poi, ha manifestato pesanti debiti creativi nei confronti di quello delle origini. Tornare all’origine (parliamo dell’Argento horror), a quella vena fantastico-orrorifica che attingeva dalla fiaba gotica con rimandi esoterici, si è rivelato essere una sorta di catarsi per il regista romano, il quale, abbandonando ogni forma di vincolo strutturale, ha liberato una furia immaginifica senza pari. Era ciò che i fan si attendevano, ma non tutto, come capirete dall’analisi, è andato come avrebbe dovuto e potuto andare perché “La terza madre” è un film che palesa un elevato numero di limiti, tali da inficiarne il valore complessivo, distante dalle prime due parti della trilogia. E la storia, come spesso era accaduto in passato per altre sue opere, è soltanto il pretesto per restituire allo spettatore gli incubi del cineasta, riaggiornati ma non troppo.

Un’antica urna incatenata ad una bara viene rinvenuta nei pressi di Viterbo. Il suo contenuto, una tunica e delle inquietanti statuette, non è altro che un cumulo di reliquie appartenenti a Mater Lacrimarum, ultima sopravvissuta di un trittico di malvagie e pericolosissime streghe che volevano dominare il mondo. Al centro dell’angosciante vicenda è collocata Sarah, giovane studiosa di restauro del Museo di Arte Antica di Roma, che si trova suo malgrado, curiosando nell’urna, ad innescare una spirale d’orrore e morte senza precedenti. Si risveglia la Madre delle Lacrime, la più feroce delle tre, avocando a sé le streghe provenienti da ogni dove. La Capitale diventa luogo di follia e di sangue: omicidi, suicidi, violenze d’ogni genere portano Roma nel caos. Un commissario indaga, è sulle tracce di Sarah, sospettata perché unica, farneticante testimone del primo, efferato rito omicida consumato nel museo. Per Sarah è anche un viaggio alla ricerca del sé nascosto, manifestatosi improvvisamente attraverso una voce che la aiuta nei momenti decisivi: è una voce amica, familiare, quella della madre perduta in circostanze che le sono state occultate. Nel sangue comune Sarah scopre un passato di magia bianca, di antagonismo al malvagio potere delle streghe (uno scontro tra la madre di Sarah ed Helena Marcos, la Madre dei Sospiri, in cui la strega buona trovò la morte); nella voce amica trova parole che le donano la consapevolezza di poter confliggere con la Madre delle Lacrime. Roma sta per divenire la culla del male eterno, ma venendo in possesso dell’antico libro sulle tre madri (che appare per la prima volta in Inferno) Sarah si trova di fronte all’enigma che può svelare l’ubicazione della dimora della strega. È l’ultima delle tre case costruite dall’architetto Varelli (anche qui il rimando è a “Inferno“), una villa abbandonata in pieno centro storico. E l’inferno che attende Sarah, il terreno di scontro con l’ultima Madre, non può che essere sottoterra.

Delirio e apocalisse, “La terza madre” è con ogni evidenza il canto del cigno di un grandissimo regista, un innovatore di genere, un folle visionario che ha accompagnato gli incubi di più generazioni, un artista che, probabilmente, ha dato fondo alle residue energie proprio con quest’ultima opera. I motivi per cui Dario Argento, ahimé, sembra non aver più nulla da dire e da dare di originale sono legati non solo a più che probabili crisi d’ispirazione, ma anche al contesto storico e culturale che ospita la sua arte. E mi spiego meglio. Il regista romano, nei primi anni Settanta, non inventò un genere ma fu il più grande innovatore di genere che il mondo di celluloide, per quel che attiene al thriller-horror,  ricordi. Nessuno come lui, questo è incontestabile, come è altrettanto evidente che da un trentennio abbondante continuano a fiorire epigoni, a oriente come a occidente. Gli epigoni, dicevamo, quelli che oggi gli rubano la scena, perché figli di un mondo globale in cui sono riusciti a tradurre le suggestioni del suo cinema in arte globalizzata. E la sanno fare bene, pur essendo lontani dal regalarci gli spaventi e le atmosfere ansiogene che nessuno come Argento ci ha saputo donare. Di qui il problema per il nostro, unito alla progressiva crisi creativa: come attualizzare il proprio cinema al cambiamento dei tempi? Tanti tentativi andati a vuoto e allora ecco “La terza madre“, sfogo totale e assoluto, prolungato esercizio (in cui si sarà divertito tantissimo, immagino), fantasioso ed estremo, di modalità cruente con cui rappresentare la morte. Circo grandguignolesco, teatro dell’efferato, “La terza madre” è un film che sorprende e a tratti sconvolge per la sua furia espressiva, per la totale assenza di freni inibitori, per la violenza visiva. È la morte che assurge al livello di opera d’arte, nelle intenzioni del regista. Meglio non svelarvi troppo, in questo senso, ma ci sono scene a dir poco raccapriccianti, nelle quali possiamo trovare una donna che viene squartata e successivamente strozzata con le proprie interiora, una impalata (in una “normale” dinamica d’omicidio, non in un rituale!) e un’altra a cui viene fracassato il cranio dalla chiusura di una porta. Chi ama le opere argentiane, comunque, non si sorprenderà certo della macelleria proposta, ancorché qui esibita in modo tremendamente compiaciuto; la differenza non la fa pertanto il sangue che scorre a fiumi, costante del suo cinema, ma lo stile con il quale tutto ciò viene rappresentato.

La terza madre” è in effetti un’opera molto meno stilizzata rispetto a “Suspiria” e “Inferno“, pellicole in cui la scenografia allucinogena, l’uso dei colori, lo studio al millimetro dei movimenti di macchina erano elementi fondanti della potenza visivo-espressiva restituita. Qui non è cosi, l’unica urgenza visiva che manifesta il regista romano è quella di rendere appieno furia e violenza, attraverso un una ricerca sfrenata, brutale e compiaciuta del dettaglio scabroso e morboso, tralasciando la cornice ospitante e la congruenza narrativa. Per far tutto ciò si avvale delle nuove tecnologie, di effetti speciali e make-up talmente marcati da non nascondere la finzione scenica (il volo del bimbo dal ponte, la testa fracassata nel treno e la morte della Terza Madre sono momenti in cui Argento mostra, probabilmente per scelta, che si tratta palesemente di un effetto visivo: si nota che sono fantocci e non esseri in carne ed ossa). In sostanza non gliene frega di nulla e di nessuno, Argento sceglie di cantare la morte cosi come l’ha sempre immaginata, amplificando l’effetto cruento per renderlo appetibile ai nuovi adolescenti del pianeta, già temprati dal fatto di aver interiorizzato ogni possibile forma di violenza alla tv. È questo il punto chiave, precedentemente solo sfiorato. Il regista romano fa opere brutte o non totalmente convincenti perché ha tentato di adeguare il suo cinema al tempo che lo ospita, tempo talmente intriso di orrore da immunizzarci contro qualsiasi rappresentazione raccapricciante.

Asia Argento è l’ultima musa, e non poteva, ma forse è giusto cosi, essere diversamente. L’ultimo delirio del genio dell’horror abbisogna del quadro di famiglia: Dario, Daria (Nicolodi) e Asia sono insieme, per un viaggio intimo che muove a ritroso riavvicinando alla memoria anche splendide sensazioni (da “Profondo Rosso” a “Trauma“), che riporta sul carro argentiano antichi compagni di viaggio (Udo Kier), ripescando volti che ci erano cari e consueti in tutt’altro genere cinematografico (Philippe Leroy). La Madre delle Lacrime è invece la bellissima Moran Atias, quasi sempre svestita nelle sue fugaci apparizioni, gioia per gli occhi di tanti spettatori. Il cast non si amalgama gran che, non solo e non tanto per l’incapacità recitativa dei comprimari, ma anche e soprattutto per gli sconclusionati dialoghi immaginati in sede di sceneggiatura. Uno dei limiti più evidenti de “La terza madre“, ciò che lo allontana veramente da “Suspiria” (soprattutto) e “Inferno” è proprio la costruzione dei dialoghi, in misura ancor maggiore della cornice scenografica. Asia comunque non demerita, in un contesto che la vede protagonista assoluta, ha il solo e consueto limite dell’intonazione vocale. Argento lascia la sua traccia d’autore con un intenso e prolungato piano sequenza (oltre 4 minuti) che introduce Sarah nella dimora di Mater Lacrimarum, un labirinto di catacombe che il regista romano trasforma in una tenebrosa allucinazione visiva (streghe che copulano, riti antropofagi, torture e “finezze” assortite) che prelude all’epilogo. 

Nota di merito per l’ ispirata colonna sonora di Simonetti, un mix tra musica classica ed elettronica, con parecchi richiami al gotico soprattutto nell’uso del coro, strizzando l’occhio al passato nel tentativo riuscito di ripercorrere le proprie tracce (“Suspiria” e “Phenomena“). Sui titoli di coda si libera il brano “Mater Lacrimarum“, pezzo davvero affascinante eseguito dai Daemonia con la voce Dani Filth, cantante dei Cradle of Filth. I titoli di testa, invece, che scorrono su immagini iconografiche d’un orrore mitologico e ancestrale, sul sottofondo musicale di Simonetti, sono un presagio di buona ventura che l’opera, per tutti i motivi su citati, conferma solo ed esclusivamente dal punto di vista di una suggestione di superficie. Difatti “La terza madre” non può competere con l’Argento tanto rimpianto dei Settanta Ottanta, a conti fatti per un ulteriore motivo che, a buona ragione, oscura tutti quelli precedentemente analizzati: non fa breccia nell’inconscio. Non libera più quel fanciullo imprigionato nelle porte del sogno-incubo, non gli restituisce la consapevolezza che è tutto un gioco, che è una fiaba nera, che è un percorso iniziatico per tornare a sé, per diventare adulto e vincere le paure del mondo. Questo non potrà più avvenire, temo, e allora è bene prendere i futuri prodotti della sua cinematografia per quello che inevitabilmente saranno. Al pari dei “Saw“, degli “Hostel” e dei “The Ring“, puro intrattenimento e nulla più. Non potranno più assolvere quella funzione catartica che è stata cosi importante per più generazioni di appassionati: esorcizzare i mostri che il percorso infantile ha amplificato.

Federico Magi, novembre 2007

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