Recensione film horror L’ora del Lupo

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locandinaRegia: Ingmar Bergman
Soggetto e Sceneggiatura: Ingmar Bergman
Attori: Max Von Sydow, Liv Ullmann, Ingrid Thulin
Produzione: Svezia, 1966
Durata: 90′

Voto: 8.5/10

Maschere, volti, allucinazioni, simbolismi, inconscio. Teatro, autobiografia. Cinema: finzione. L’ora del lupo è quel tempo interminabile (per chi teme il sopraggiungere del buio) compreso tra le due e le cinque del mattino, il frangente in cui si palesano i fantasmi, in cui è impossibile trovare il sonno. L’unica possibilità è tenere gli occhi aperti, avvicinando alle pupille la luce di un fiammifero che si consuma velocemente. E poi un nuovo fiammifero, ancora un altro: stessa sorte, fino all’alba.
Due occhi inquieti, quelli di Alma (Liv Ullmann), sorvegliano preoccupati quelli del marito Johan (Max von Sydow), persi in un universo di depressione e logorati da fantasmi, vecchi e nuovi. Fantasmi di ritorno, di un amore perduto, si mescolano a mostri cannibali, ragni, figure grottesche, a un bambino.  Una coppia, senza contatto; un amore, forse consumato, perduto, assente, lontano. Eppure, Alma prova a comprendere, cerca vicinanza, trovando invece l’immedesimazione. I mostri, i fantasmi, diventano anche suoi, aggravano i silenzi, dilatano uno spazio già dilatato,
partoriscono incomunicabilità e solitudine. L’arte, il teatro, le marionette, il flauto magico mozartiano, i dipinti che lo spettatore non vede e ancora i fantasmi. Johan è un pittore assai noto, misantropo, o divenuto tale, che nonostante la vicinanza, è lontano dal mondo e soprattutto da Alma. Le ore notturne materializzano il mondo inconscio che lo divora, un mondo di orrori onirici che si fanno reali. Che tormentano, trasformano, annientano, fino alla morte.

Girato appena dopo “Persona”, uno dei suoi indiscussi capolavori, “L’ora del lupoè un viaggio agli inferi terrificante, che da modo a Bergman di “nascondere” in un universo mai prima di allora così criptico e simbolico, numerose suggestioni contenute nei suoi precedenti lungometraggi.
Tratto da un’opera teatrale scritta nel 1962 dallo stesso maestro svedese (dall’eloquente titolo “Gli Antropofagi“), il film in questione è finzione allo stato puro, ammessa e rivendicata fin dalle prime sequenze. La storia ci viene narrata da Alma, cui Bergman fa rievocare, attraverso un infinito flashback, le angosciose vicende che la videro, suo malgrado, protagonista.
Dopo una brevissima introduzione, la pellicola sembra evidenziare, grazie alle atmosfere cupe e alla tematica di
superficie, un soggetto dalle venature horror. È inganno, è finzione, apparenza che cela i dubbi esistenziali che ossessionano il regista: la crisi di coppia dovuta all’incomunicabilità, i traumi del passato, il logorio emotivo dell’artista estraneo al tempo che lo ospita, l’ossessione riprodotta attraverso l’arte. Tutto molto autobiografico, i film bergmaniani sono ispirati sempre da personalissime ossessioni che si fanno sovente arte sublime, ancorché difficile da restituire. Come in questo caso, perché Bergman non cerca affatto l’empatia, il feedback dello spettatore, costruendo personaggi che si muovono in un universo dominato da simboli davvero disorientante, ma quanto mai affascinante.
Quanto più il film si fa criptico e labirintico, tanto più si è rapiti, quasi ipnotizzati dalla vicenda narrata; una vicenda lontanissima dal ritmo e dalla consecutio lineare, affollata dai silenzi, dai volti, da un’ossessione immateriale che si insinua quasi malefica nello spettatore. La pellicola non regala che pochissime voci, quasi mai dialoganti; vive di silenzi e di brevi e azzeccati monologhi. Volti sofferenti che ci parlano, cercando consapevolezza, aderenza ad una realtà oramai intrappolata nel mondo onirico e spettrale, come nel caso di Johan, rivolto ai fantasmi che non danno pace: “Grazie a voi ho raggiunto il limite. Lo specchio si è spezzato. Cosa riflettono i frantumi? Sapete dirmelo?”.
Si chiude su un primo piano della Ullmann che emerge dal buio, in cui Alma, il suo personaggio, mette a parte di dubbi e angosce esistenziali maturate dalla tragica esperienza vissuta: ha scrutato nell’abisso; l’abisso avrà messo radici in lei?
Su un registro simile il maestro svedese si mosse anche nel concepire opere successive come “Il rito”, “L’immagine allo specchio” e “Un mondo di marionette”, quasi a voler ricordare che il suo cinema esistenzialista ha conosciuto diversi modi di rappresentazione e diverse chiavi di lettura, sicuramente ispirando, con opere come quelle citate, un grande cineasta attuale come David Lynch. Chiaro è infatti il debito che il cineasta americano deve a una pellicola come “L’ora del lupo“, nella quale, con qualche decennio d’anticipo, Bergman traccia la strada che ha ispirato capolavori come “Strade perdute” e “Mulholland Drive” (e prima ancora il serial “Twin Peaks”). 

Ottime le prove degli attori, raffinata la fotografia in bianco e nero del compianto Sven Nykvist, quanto mai suggestiva nel dar vita a questa inquietante allucinazione bergmaniana che scava nell’inconscio attraverso gli archetipi del terrore (un castello, gli spettri, il mescolarsi di realtà e finzione, sogno ed incubo), trasformando in fantasmi viventi le angosce dell’artista misantropo, ovvero Bergman stesso, il disadattato per eccellenza.
Il risultato d’insieme è che “L’ora del lupo” è una pellicola straniante, tra le meno note di Bergman, riesumata in Dvd da poco, probabilmente per i soli amanti della filmografia del regista svedese. Immagino che, salvo particolari curiosità
cinefile, sarà comunque trascurata: da coloro che non ne verranno mai a conoscenza, dai non amanti del maestro svedese, e dai fuggevoli visitatori del sito i quali, trovandosi a leggere questo mio scritto, saranno vinti da
un’improvvisa voglia di leggerezza e di commedia. Eppure, nonostante le doverose riflessioni in merito, questo Bergman “delirante” e nascosto è un’opera fascinosa, è cinema per amanti veri. Se vi trovate a compiere la piccola impresa di vederlo per intero (per i neofiti del nostro, difatti, è probabile arrivi in fretta la noia), scoprirete una perfezione stilistica e una geniale visività che si fa narrazione per sole immagini, a dispetto di uno scritto volutamente poco comprensibile, altrove difficilmente riscontrabile.
Forse il Bergman più allucinato, certamente il più allucinante.

Federico Magi (Lankelot.eu), 29.01.2007

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