Recensione film horror Inferno
Regia: Dario Argento
Soggetto e Sceneggiatura: Dario Argento
Attori: Leigh McCloskey, Irene Miracle, Daria Nicolodi
Produzione: Italia, 1980
Durata: 106’
Note: Vietato ai Minori di anni 14
Voto: 8/10
New York. Rose Elliott (Irene Miracle) è appassionata di libri antichi e di leggende misteriose. Per caso scopre un libro scritto da un certo Ettore Varelli, architetto dell’Ottocento appassionato di alchimia. Nel libro Varelli scrive di aver consacrato la sua vita alle Tre Madri, divinità degli Inferi, e di aver costruito per loro tre dimore in tre diverse città del mondo: Roma, Friburgo e New York. La casa di Roma è per la Mater Lachrimarum, la Madre delle Lacrime, quella di Friburgo per la Mater Suspiriorum, la Madre dei Sospiri (non a caso il film precedente di Dario Argento, “Suspiria“, ispirato appunto al “mito” della Madre dei Sospiri, era ambientato a Friburgo) e quella di New York è per la Mater Tenebrarum, la Madre delle Tenebre, la più giovane e spietata delle tre. Dopo una macabra scoperta fatta negli scantinati dell’antico palazzo in cui vive, Rose si convince che l’edificio è proprio la dimora della Mater Tenebrarum, e scrive una lettera a suo fratello Mark (Leigh McCloskey), che vive a Roma, per metterlo al corrente della scoperta fatta e pregarlo di raggiungerla. Ma lui non leggerà mai la lettera, perchè questa finisce nelle mani di Sara (Eleonora Giorgi), una sua amica, che finirà per appassionarsi al culto delle Tre Madri e vorrà saperne di più, pagando con la vita la sua curiosità…
Intanto Mark riceve una concitata telefonata da sua sorella, ma la comunicazione si interrompe misteriosamente: preoccupato per Rose, si imbarca sul primo volo per New York e va a casa di lei. Nel palazzo farà la conoscenza di alcuni personaggi decisamente strani: un’arcigna portinaia (Alida Valli), la contessa Elise (Daria Nicolodi), che abita nell’appartamento sopra quello di Rose, e il suo infido maggiordomo (Leopoldo Mastelloni)…
In quest’opera, uscita nelle sale nel 1980, Dario Argento riprende ed approfondisce alcune delle tematiche a lui “care” e che hanno caratterizzato la produzione precedente. In particolare, è interessante notare che, mentre le prime pellicole (“Il gatto a nove code“, “L’uccello dalle piume di cristallo“) si attenevano maggiormente allo schema del giallo “classico” (con un assassino “umano” ed un movente), già in “Profondo rosso” vi è una sorta di “evoluzione” per cui l’assassino è comunque un essere umano, ma il movente non esiste più: o meglio, l’unico e solo movente è rappresentato dalla follia, lucida, illogica eppure “ferrea” nello schema che l’asssassino si dà e che usa per colpire le sue vittime. In “Inferno“, invece, di umano non c’è più nulla. Ad uccidere non è un essere umano, ma una sorta di entità soprannaturale che governa e gestisce l’ordine delle morti, apparentemente illogico. Perfino quando a commettere materialmente l’omicidio è un essere umano (come nel caso dell’antiquario Kazanian, assassinato da un venditore ambulante), questi compie il gesto di uccidere come se fosse “in trance”, guidato da una forza superiore… Il male, quindi, non si “concentra” in una persona, ma è dappertutto, nell’aria, nelle pareti di antichi palazzi che da esso sono impregnate, nell’odore dolciastro che si sprigiona nelle strade come un inquietante presagio…
Non a caso “Inferno” è considerato il film più visionario e “personale” dell’intera produzione di Dario Argento, il punto di arrivo della sua “follia”: il male è dappertutto e, come a voler sottolineare ciò, l’atmosfera del film è oltremodo cupa, permeata di ombre e di colori forti e scuri: il rosso e il nero degli androni e dei pianerottoli del palazzo di Rose, il marrone scuro dell’appartamento di Elise, il violaceo delle ambientazioni notturne, in strada…
Non ci sono nemmeno più i movimenti di macchina che caratterizzavano “Profondo Rosso“: la cinepresa si muove più lentamente, indugia molto di più sui particolari (quelli più “macabri“, ma non solo…) mentre le musiche di Keith Emerson (per una volta Argento rinuncia ai suoi “Goblin“) sottolineano con efficacia i suoi deliri onirici: esemplare, al riguardo, la scena di un omicidio compiuto sulle note di “Va’ pensiero” di Verdi.
Un film, in definitiva, forse poco comprensibile, almeno apparentemente, con più di un’incongruenza nella trama (a volte si ha la sensazione che la pellicola sia come “composta” da diversi episodi) eppure imprescindibile, secondo me, per chiunque voglia avvicinarsi all’opera di colui che, nonostante le discusse ultime “creazioni”, rimane il maestro del Brivido “made in Italy” e non solo.
Andrea Del Gaudio (ciao.it) giugno 2004