Recensione film horror Il Sesto Senso
Regia: Michael Night Shyamalan
Soggetto e Sceneggiatura: Michael Night Shyamalan
Attori: Bruce Willis, Haley Joel Osment
Produzione: U.S.A. 1999
Durata: 107′
Note: Vietato ai Minori di anni 14
Voto: 8/10
SENTIRE e ASCOLTARE
Il piccolo Cole (Haley Joel Osment) ha paura. È un bambino sensibile e inquieto. Vive solo con la madre (Toni Collette), non sa integrarsi coi compagni di classe. E ha la strana abitudine di ritirarsi in chiesa per giocare a soldatini.
È solamente là, nel tempio del burattinaio princeps, che può sentirsi al sicuro e manovrare anime e destini: in altre parole, simulare altre esistenze.
Perché Cole ha bisogno di simulare comportamenti, atteggiamenti e dialoghi? Perché la sua capacità di sentire non è comune – le anime dei morti gli appaiono continuamente. E lui fugge, perché non capisce cosa possano volere da lui: sente, ma non sa ascoltare.
Il dottor Malcolm Crowe (Bruce Willis) è insicuro. Un tempo era orgoglioso del suo lavoro – psicologo infantile – perché ai tanti sacrifici, e alla devozione alla causa, era corrisposto un riconoscimento da parte del sistema: il sindaco gli aveva dedicato una targa – era chiamato “figlio” dalla cittadinanza di Philadelphia. D’un tratto, pesava meno aver trascurato la moglie e gli affetti per curarsi dei piccoli “quasi adatti”: Malcolm aveva la conferma che quel che aveva fatto aveva senso, per tutti. Poi, dal passato, era tornato qualcuno che s’era sentito abbandonato: un caso difficile, lasciato incompiuto. E questo giovane uomo, rimasto il bambino infelice d’un tempo, prima di uccidersi gli aveva sparato, piangendo. Malcolm aveva ascoltato, perché non sapeva sentire.
Malcolm ha una possibilità di riscatto. Cole somiglia molto a quell’uomo-bambino infelice. Ma il dottore non dovrà ripetere l’errore: soltanto “sentendo” potrà capire. E soltanto insegnandogli ad ascoltare potrà aiutarlo a non avere più paura.
Questi i binari fondamentali per interpretare la particolare condizione psicologica dei due protagonisti del film di Shyamalan: due figure che, scambiandosi i reciproci talenti, potranno conquistare un altro status e un nuovo equilibrio. Non senza dolore, e non senza paura: non senza sacrificio, e non senza sofferenza. Non si può salutare nell’adulto Malcolm l’unica figura-guida. Con la stessa dolcezza e la stessa pazienza, Cole svelerà a Malcolm la sua nuova natura: quella di essere non più vivente.
Ad un primo livello di interpretazione, “Il Sesto Senso” è allora una sorta di atipica “avventura di formazione”, fondata sulla dialettica tra due personaggi cardine e intervallata dalle apparizioni d’una alterità sempre funzionale all’evoluzione della consapevolezza dei protagonisti: è un thriller che non manifesta complessi “di genere”, e vuole e sa elevarsi ad opera d’arte. Mantiene la capacità di sospendere lo spettatore, di stupire e meravigliare, di spaventare senza terrorizzare: perché va armonizzando due mondi, quello dei vivi e quello dei morti, mostrando che la chiave di volta per la quiete delle creature di entrambe le dimensioni è la medesima – l’empatia.
Empatia intesa come capacità di sentire e ascoltare al contempo, d’essere testimoni dell’esistenza d’un altro – come nella Ballata del Vecchio Marinaio di Coleridge – partecipando alle sue parole, vivendole e condividendole, interiorizzandole e restituendole rinnovate – o “integrate”.
Per certa parte della critica e del pubblico, questo film è destinato a rimanere una sorta di evoluzione de “L’Esorcista”, per via della pacifica accettazione della possibilità che fenomeni sovrannaturali possano verificarsi e del succedersi di contatti tra una dimensione “reale” e una “spirituale”; oppure, un fascinoso thriller, non immune alle lezione gotica hitchcockiana (e neppure agli stilemi del maestro: si pensi al cammeo del regista), al limite pregevole per via dei tempi e dei ritmi della narrazione, e per la “resistenza della suspence”.
La sottile indagine psicologica ideata e condotta dall’autore, Manoj Nelliyattu “Night” Shyamalan, (classe 1970, nato in India e cresciuto dalle parti di Philadelphia) non dovrebbe essere trascurata – è prova della sua intelligenza e della sua inventiva. Non confermata, ad oggi, dalle successive pellicole: se “Unbreakable” è poco più d’un sofisticato omaggio ad una delle grandi passioni dell’autore, i fumetti, risultando un divertissement (pure di culto per una nicchia), “The Signs” è una risibile e paranoide parabola d’invasioni aliene.
Comune a questa trilogia del paranormale la presenza dell’acqua come elemento nemico o distruttivo: annienta gli alieni in “The Signs“, è la kriptonite del supereroe di “Unbreakable“; ed è, infine, in un bagno che si uccide il paziente di Malcolm, dopo avergli sparato. Ad altri il compito di indagare l’idrofobia del regista.
Gianfranco Franchi (Lankelot.com) Aprile 2004