Recensione film horror Il Rosso Segno della Follia
Regia: Mario Bava
Sceneggiatura: Mario Bava, Santiago Moncada, Mario Musy
Attori: Stephen Forsyth, Dagmar Lassander
Produzione: Italia, 1969
Durata: 88’
Note: Vietato ai Minori di anni 14
Voto: 7/10
“Il rosso segno della follia” è la storia di John, un serial killer paranoico ed impotente che ha il vizio di uccidere donne vestite con abiti da sposa; in uno dei suoi frequenti raptus, John uccide anche la moglie Mildred, che continua a deriderlo per la sua impotenza, ignara della furia omicida che il marito cela, e che continuerà a perseguitarlo anche dopo la carneficina, visto che gli apparirà spesso in sogno sotto forma di fantasma vestito di nero.
Così come l’immagine ricorrente della madre non lascerà mai in pace il protagonista del film, dato che il regista ben presto ci svela il trauma infantile che sta all’origine di tanta efferatezza da parte di John, che diversi anni prima aveva perso la madre misteriosamente, uccisa in modo crudele e sanguinario da un killer che non è mai stato trovato.
Dimenticato anche l’omicidio della moglie, John si invaghisce di una modella che lavora per la sua casa di moda e, consapevole della sua stessa pericolosità, cerca di starle alla larga nonostante ne sia affascinato, ma la ragazza in realtà è un poliziotto che cerca di incastrarlo…
Si tratta di un thriller gotico ambientato in epoca moderna, dove, come nel peggiore degli incubi infantili, il fantasma
vestito di nero non abbandona il protagonista fino alla fine, quando ormai rassegnato e in preda al delirio si vedrà perseguitato anche dal fantasma di se stesso bambino.
Nonostante l’efferatezza e il sangue a fiumi, il film non manca di sprazzi di umorismo.
L’identità del serial killer è svelata all’inizio del film anziché alla fine, per poi permettere un viaggio nella follia di un assassino paranoico ed impotente, consapevole della propria morbosità, un viaggio dove realtà ed immaginazione si confondono.
I pensieri, i dolori, le manie, le fantasie del killer ci vengono svelate attraverso l’uso del monologo interiore delirante e un uso particolare della telecamera, con la soggettiva dell’assassino e l’alternanza di primi piani del protagonista adulto a quelli dello stesso bambino, fino alla macabra rivelazione finale.
Il regista gioca molto sull’immagine, usando colori intensi e vivaci; la scena più interessante è senza dubbio quella in cui si vede il bambino salire le scale avvolto in una bianca coperta che sembra lo strascico di un velo da sposa.
Il regista inizia a sperimentare l’uso della pop art psichedelica, deformando le immagini in linea con la mente allucinata del protagonista, ma eliminando gli efferati effetti speciali.
Con queste tecniche il regista, Mario Bava, riesce a far sì che la simpatia del pubblico vada al protagonista, nonostante la sua efferatezza nell’uccidere.
In questo film si trovano temi, luoghi e situazioni già utilizzati dal regista: l’atelier di manichini, l’ossessione di essere perseguitati da un morto, il baby killer.
C’è anche un auto-citazione, quando da una televisione viene trasmesso un film horror, “I tre volti della paura” dello stesso Bava; suggestiva la colonna sonora, insolitamente malinconica e romantica per un film horror.
Sviolinello Tombolo 08.11.2006