Recensione film horror Elephant

Recensioni

locandinaRegia: Gus Van Sant
Sceneggiatura: Gus Van Sant
Attori: Eric Deulen, Alex Frost
Produzione: U.S.A. 2003
Durata: 81’
Note: Vietato ai Minori di anni 14

Voto: 10/10

Elephant” è un film sul quale sono stati espressi parecchi pareri negativi, tanto dalla critica (mi riferisco a quella italiana), quanto (e più) dal pubblico, uscito dalle sale imbestialito e che nella maggior parte dei casi ha invocato il rimborso del biglietto.
Mi è bastato leggere una sola recensione positiva che parlava di scelte “d’autore” che avrebbero soddisfatto gli spettatori che non si fermano solamente agli aspetti della trama per giudicare un film, ma che guardano con piacere anche alle scelte della fotografia, del montaggio e agli aspetti della regia e della sceneggiatura.
Armato di buona volontà, ho visionato questo pachiderma di Gus Van Sant e devo dire che ne sono rimasto piacevolmente colpito, soprattutto per le scelte realizzative di cui sopra, delle quali parlerò però più avanti.

La trama è presa direttamente dalla cronaca, 13 morti tra studenti e professori nel liceo Colombine a Portland nel 1999 sono storia vera, non è finzione cinematografica; la finzione sta nel dipingere i momenti appena precedenti alla strage, nel cercare di dare un volto alle vittime e ai carnefici.
Perciò conosciamo diversi protagonisti di questa storia grazie alla telecamera che li segue nei loro gesti più inutili e nelle loro azioni più banali; c’è John, il ragazzo già maturo per necessità, perché con un padre che di prima mattina è ubriaco e non è nemmeno in condizioni di accompagnarlo a scuola, dev’essere per forza così.
Elias ha invece la passione della fotografia e passa il tempo a imprigionare momenti di normalità nella sua macchina fotografica; Elias fotografa gli amici a scuola e le persone sconosciute che ferma per strada, cerca delle istantanee da inserire nel suo book personale.
Nate è un ragazzo come tanti, gioca a football e dopo l’allenamento attraversa tutta la scuola per raggiungere la sua ragazza, Carrie; insieme firmano il permesso per uscire da scuola e passare un po’ di tempo insieme e mentre escono da scuola parlano dei loro progetti per la serata.
Acadia vede John piangere ma non ha molto tempo per starlo ad ascoltare, perché deve andare alla riunione sui diritti delle minoranze sessuali, sede di una delle migliori scene del film.
Brittany, Jordan e Nicole sono invece le tipiche tre zabette anoressiche che pensano di essere la creme della creme, ma in realtà sono evitate da tutti come la peste; il loro pranzo dura esattamente 2 minuti di orologio e dopo aver litigato mentre mangiavano perché una delle tre voleva sottrarre del tempo al loro patto di sangue per stare col ragazzo, si recano allegramente alla toilette per poter vomitare tutto e di conseguenza non ingrassare, che menti malate!
C’è poi Michelle, una ragazza bruttina che alle lezioni di educazione fisica si mette i pantaloni lunghi invece degli shorts perché si vergogna del suo corpo; Michelle aiuta il bibliotecario appena ha un minuto libero e sembra proprio non avere amici.
Infine ci sono Alex ed Eric, uno è il tipico sfigato della classe, anche lui senza amici, viene preso di mira dai suoi compagni che si credono migliori, ma in realtà lui ha un grande talento per suonare il pianoforte; insieme al suo amico che forse non a caso ha la fisionomia di Eminem, guarda documentari storici, acquista armi su internet e gioca a videogame “sparatutto”.

Così sembra facile individuare chi saranno gli assassini, ma il regista ha costruito il film in modo che per tutto il primo tempo lo spettatore conoscesse i vari ragazzi e le loro azioni e dubitasse di loro, pensasse che proprio quel ragazzo o quella ragazza fossero gli assassini.
John poteva esserlo perché non poteva sostenere di avere un padre ubriacone e perché il preside continuava a dargli punizioni per i suoi ritardi; Elias poteva esserlo perché era arrabbiato con i suoi genitori che non lo facevano andare ad un concerto; Michelle poteva aver covato il piano per rivalersi su quelle Barbie che la guardavano sempre storto; le tre zabette avrebbero potuto farlo perché in lotta col mondo e con i grassi; Eric avrebbe potuto essere l’assassino perché c’è sempre un momento in cui lo sfigato si vendica e Alex da appassionato di “sparatutto” sarebbe stato il perfetto assassino.
Molti hanno criticato l’eccessiva aderenza di questi personaggi agli stereotipi di adolescente, lo sfigato, la sfigata, gli innamorati, le zabette anoressiche, il ragazzo con la situazione familiare complicata, quello che cerca di evadere con una passione dai suoi problemi, l’attivista.
Beh hanno proprio ragione, Gus Van Sant ha dipinto questi ragazzi secondo gli stereotipi più consumati di adolescenti, e allora?! Perché questo dovrebbe essere un punto a sfavore della pellicola? A mio parere l’intento del regista era proprio quello di far capire che ragazzi qualunque in una giornata qualunque a scuola sono stati uccisi a sangue freddo da due loro compagni, perciò la scelta degli stereotipi non può far altro che risultare vincente in quest’ottica.

Per prima cosa un plauso alla fotografia di Harris Savides, il film è attraversato da frequenti cambi di intensità della luce e di contrasto della luce ed è vero che la cosa potrebbe disturbare di primo acchito, ma io invece l’ho trovata una scelta azzeccata perché descrive bene i cambiamenti di luogo (dentro-fuori, corridoio-classe, etc) che spesso rappresentano anche i cambiamenti di protagonista o le svolte del film.
Per interpretare questo film sono stati ingaggiati decine e decine di veri e propri studenti senza alcuna esperienza recitativa, a partire dai protagonisti della vicenda fino ad arrivare alle comparse; gli attori adulti sono solamente una manciata e mi vengono in mente il professore che sta alla seduta sui diritti delle minoranze sessuali, il preside e il padre di John.
Nonostante l’assoluta mancanza di esperienza di questi ragazzi, ce ne sono alcuni veramente sbalorditivi, come i ragazzi che interpretano John, Alex, Eric e Michelle; si mormora anche che Gus Van Sant si sia permesso il lusso di lasciare spazio libero all’improvvisazione a questi ragazzi che non avevano mai recitato.
Altro aspetto da considerare è la sceneggiatura; come detto i ragazzi sono rappresentati secondo stereotipi abbastanza risaputi, eppure è proprio questo un aspetto positivo della pellicola; è sufficiente un’inquadratura o una frase per capire quali sono i problemi di quel ragazzo o le passioni di quell’altro; la sceneggiatura è incredibilmente realistica, non solo a causa della sua derivazione dalla cronaca, ma anche grazie al fatto che molti adolescenti avranno almeno un punto di riferimento in cui rispecchiarsi tra i tanti protagonisti della storia.
Il sonoro è uno degli aspetti che mi ha maggiormente sorpreso per quanto riguarda questa visione; lo spettatore non è reso partecipe solamente del dialogo intrapreso dal protagonista di una determinata scena, ma viene data uguale importanza anche ai dialoghi, spesso tra persone non visibili all’interno dell’inquadratura, che si intersecano al dialogo principe e si sovrappongono ad esso; la parola passa dunque da una bocca all’altra, catturando dialogo dopo dialogo, facendo sentire allo spettatore alcuni pezzetti di tanti dialoghi e anche se questo può apparire primariamente inutile, a mio parere rappresenta un esperimento riuscito da parte di Gus Van Sant.
Veniamo ora alla regia, caratterizzata da una telecamera a spalla che segue indiscretamente i personaggi, appiccicandosi alla loro schiena e mostrando per gran parte del film la nuca dei personaggi che si spostano da una parte all’altra della scuola; oppure la scena della riunione sui diritti delle minoranze sessuali, in cui la telecamera non segue, come tutti di attenderebbero, coloro che prendono parola, ma mostra con effetto spiazzante, tutti gli astanti di quel discorso, semplicemente seguendo il senso orario con una telecamera ferma su un perno che gira su se stessa, slegando le riprese e il discorso in modo molto affascinante; sicuramente sono inquadrature insolite quelle cercate dal regista e anche queste possono risultare apparentemente come mero esercizio di stile, ma a mio parere esse denotano un alto grado di realismo, non cercando di mostrare la vicenda vista da un occhio esterno onnisciente, bensì da un narratore interno onnipresente sul campo.
Altro esperimento ben riuscito che spiazza un po’ lo spettatore è la scelta della consecutio temporum della vicenda; la telecamera sceglie di seguire i personaggi nelle loro azioni e nei loro spostamenti e subito dopo magari riproporre lo stesso passaggio ma visto dal punto di vista di un altro protagonista; ad esempio vediamo tre volte la scena in cui Elias fa una foto a John, la prima volta dal punto di vista di John,  la seconda ripresa avviene seguendo la mattinata di Elias e la terza volta la scene ci viene proposta dal punto di vista di Michelle che passava di là per caso.
I legami spaziali e temporali tra i diversi racconti della mattinata dei diversi studenti sono davvero tanti e il regista si serve di questi punti d’incontro (spaziali e temporali) per spostarsi continuamente sulla linea del tempo e per giostrare come meglio crede la narrazione all’interno della scuola.

Sono diverse le ipotesi riguardo alla scelta del titolo del film, da quella sibillina che sinceramente non ho capito rilasciata da Gus Van Sant, una spiegazione “sociale”, al riferimento alla “parabola buddista in cui un cieco cerca di risalire alla fattezze di un elefante toccandolo: tutto quello che riesce a cogliere è la consistenza della singola parte non riuscendo mai ad ottenere un quadro tattile, e dunque immaginativo, dell’insieme”; dall’omaggio al telefilm di Arthur Clarke sul conflitto irlandese tra cattolici e protestanti alla rappresentazione simbolica di una gioventù lenta di intelletto che si impone per la sua grandezza e non per la sua vera utilità; personalmente, ci ho visto anche una strana coincidenza con l’”Elephant Man” di David Lynch per quanto riguarda il ritratto di due tipi diversi di “mostro” e del loro rapporto con la società che li circonda.
Le riflessioni che instilla questa pellicola sono seriamente importanti per il futuro degli adolescenti di oggi e soprattutto degli adolescenti che verranno, lascerei stare le troppo ovvie ramanzine al sistema americano di approvvigionamento delle armi e al fatto che due ragazzi possano liberamente entrare armati in una scuola, ramanzine a cui per altro Gus Van Sant non dà molta importanza, al contrario dell’ormai celeberrimo Micheal Moore.
Mi soffermerei piuttosto sulla rappresentazione del disagio giovanile, disagio che colpisce tutti, dal primo all’ultimo, i protagonisti adolescenti della pellicola: chi ha problemi con il padre alcolizzato, chi con i genitori troppo rigidi, chi ha problemi ad avere amici e quindi una rilevanza sociale perché la sua apparenza non è delle più rosee o perché è troppo timido per reagire ai soprusi dei suoi compagni, chi rimane vittima della tacita richiesta di essere a tutti i costi magro e bello, eccetera, eccetera.
Questo è il fulcro della pellicola a mio parere, il disagio giovanile; il regista vuole mostrarci le conseguenze lasciando l’indagine delle cause principalmente allo spettatore, sarebbe troppo facile e limitato ad una visione personale del regista, dare una spiegazione univoca a questo disagio; a mio parere il regista sembra dire “guardate che succede e poi provate un po’ a pensare perché succede, facendovi un esame di coscienza”.

Questo è il quarto film di Gus Van Sant che visiono e a parte l’esser scivolato sul presuntuoso progetto di un remake di Psyco”, devo dire che ha scelto sempre delle buone storie da raccontare e che questa è la sua prima regia personalizzata e sperimentale, perché in “Will Hunting” e “Scoprendo Forrester” non si poteva certo pensare ad un regista che rifiuta le convenzioni e le sovvenzioni di Hollywood, come invece sembra voler affermare con questo suo ultimo lavoro, vincitore della Palma D’Oro a Cannes nel 2003.
Detto questo, che è anche troppo, e sicuro di aver tralasciato qualcuno dei tantissimi discorsi a cui questo film mi aveva fatto pensare, non posso far altro che consigliare la visione di questa pellicola veramente a tutti, ovviamente armati di buona pazienza e di nessun pregiudizio nei confronti di chi fa cinema sperimentale.

Adriano Lo Porto, Settembre 2004

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