Recensione film horror BeetleJuice
Regia: Tim Burton
Sceneggiatura: M. McDowell, W.Skaaren
Attori: Geena Davis, Alec Baldwin
Produzione: U.S.A. 1988
Durata: 95′
Voto: ../10
I FANTASMI HANNO PAURA (neo-Canterville?)
Surreale, wildiano, stravagante: “Beetlejuice”, spettrale commedia di Tim Burton, va a costituire un pattern delle ghost stories e si propone come indovinato e intelligente contraltare al mondo raccontato dai “Ghostbusters” soltanto qualche anno prima: sono i fantasmi ad avere ospiti indesiderati in casa, con una dozzina d’anni d’anticipo rispetto a “The Others” di Amenabar.
Si tratta di una coppia di giovani, morti nelle prime battute del film, nel generoso tentativo di salvare la vita a un cagnolino. Barbara (Geena Davis) e Adam (Alec Baldwin), sposini della provincia, erano felici e sognavano d’avere un bambino: si ritrovano, dopo l’incidente, nelle stanze della loro villa. E dalla casa non potranno più uscire: se oltrepassano l’ingresso, si ritrovano in uno scenario desertico dove strani serpenti (ricordano quelli di “Dune“) sembrano pronti ad aggredirli. In uno scenario alla Dalì.
Per fortuna, possono contare sul manuale del novello morto (“recently deceased“), per orientarsi nella loro nuova dimensione esistenziale e capire quali poteri abbiano.
Neppure il tempo di prendere coscienza d’esser morti, che subito i vivi vengono a rovinare la pacifica infestazione di quella che era stata, un tempo, la loro casa: si tratta di una spaventosa coppia di borghesi newyorchesi, lei scultrice e arredatrice, lui manager in disarmo. Hanno una figlia, la piccola Lydia (Winona Ryder), dark ed introversa, depressa e insofferente nei confronti della matrigna. Adam e Barbara, fallito qualche primo tentativo di spaventarli con trucchetti da Grand Guignol, si ritirano nel solaio, a scandagliare il manuale per studiare una nuova strategia.
Mentre la nuova padrona di casa fa a pezzi i loro mobili e snatura le loro vecchie camere, per rendere meno provinciale e kitsch (almeno: a suo modo di vedere) la mansion, gli spettri infelici scoprono che l’unica persona che può vederli è la piccola dark, Lydia. La figlia che non avevano mai avuto.
E così, poco a poco, tra la viva che desidera soltanto morire e i morti che farebbero carte false per poter tornare in vita si stabilisce un dialogo vivace e affettuoso: nessuno ha più paura, e l’intenzione sembra essere quella di coalizzarsi per danneggiare la matrigna e i suoi ospiti, scivolati nella realtà direttamente da una copertina di Vanity Fair.
Dopo aver fallito una serie di tentativi per spaventare a morte gli indesiderati viventi (memorabile una possessione al ritmo di “Banana Boat” di Belafonte, con relativa danza calypso), Adam e Barbara si rivolgono a un aggressivo e grottesco “bio-esorcista”, Beetlejuice (Michael Keaton): per evocarlo basta pronunciare per tre volte il suo nome (4 anni prima di”Candyman“). Assume forme scioccanti e improbabili, si trova terribilmente a suo agio con tutto ciò che è disgustoso e repellente, è reduce da una sfortunata carriera in seno alla società dei morti: da assistente d’una “assistente tombale”, l’equivalente della nostra assistente sociale, aveva deciso di intraprendere la carriera di bio-esorcista per guadagnare qualcosa e divertirsi a danno dei vivi e dei morti.
Beetlejuice verrà evocato in diverse circostanze: per poi essere faticosamente rispedito “altrove”, regolarmente, perché tende, come dire, ad abusare dei propri poteri e dei propri orribili talenti; ha inoltre un atteggiamento da volgare pappagallo che infastidisce donne d’ogni condizione e ogni status.
Adam e Barbara seguiranno a menadito le indicazioni del manuale, invano: dipingeranno una porta su un muro e busseranno tre volte, scoprendo che il mondo dei morti è retto da una solidissima struttura burocratica, in cui i suicidi sono impiegati e i tempi d’attesa straordinariamente prossimi a quelli della vita terrena. I corridoi di questi uffici ricordano, a un tratto, i quadri di Escher.
Il regista di Burbank gira per dieci settimane tra Los Angeles e il Vermont. Il risultato è un fantasma di Canterville più brillante e contemporaneo, intriso d’una voglia di vivere splendida: non capita mai di prendere coscienza della tragedia dei due sposi, perché di fatto la loro morte è semplicemente un passaggio: indolore. E il dubbio che Burton pone, semmai, è legato alle differenze tra la mostruosità dei vivi e la solitudine dei morti: l’umanità sembra condannata comunque a ripetere i propri errori e a eternare quanto di buono aveva espresso in passato, e la chiave di volta – come sempre – sembra poter risiedere nella comunicazione, nella necessità d’un dialogo tra “altre dimensioni”, tra un soggetto e l’alterità. L’esito pacifico e assolutamente divertente della vicenda, Lydia che danza, posseduta, “Jump in the Line” di Belafonte per festeggiare un dieci in matematica, mentre i genitori borbottano e ridacchiano nella stanza a fianco, sta a significare l’avvenuta fondazione d’un nuovo equilibrio tra “diverso” e “standard”: e lo spettatore trova, incredibilmente, meno spaventoso un bio-esorcista erotomane delle sculture della matrigna.
L’irriconoscibile Michael Keaton dà vita a un personaggio destinato a restare nella galleria delle più fantastiche e ispirate creazioni del genere: un losco figuro in grado di vedere centosettanta volte “L’esorcista”, ridendo in continuazione.
Deliziosa favola gotica.
Gianfranco Franchi Lankelot.com, Maggio 2004