Week end
La macchina arrivò alla baita verso le 21.30, quando la sera era già calata lasciandosi dietro ogni barlume di luce per dar spazio ad una neonata notte.
Non preoccupandosi minimamente di destar sospetti al vicinato, per altro già quasi del tutto sonnolento, si recò all’imbocco del garage con tutta l’aria di chi, stanco del lungo viaggio sorbito dopo un’estenuante giornata lavorativa, non vede l’ora di farsi una doccia e stendersi sul divano ad assaporare i piaceri dell’ozio.
L’olfatto ormai sintonizzato sull’odore di abitacolo appena pulito e lucidato si destò nel momento in cui, aperta la portiera e sceso dalla macchina, si diresse verso il cancello per aprirlo. Il tempo per un paio di boccate d’aria pulita e fresca e ripiombò nell’estasi del profumo, che era pesantemente sparso all’interno del veicolo.
Entrò nel garage e si preoccupò di chiudere il cancello con tre mandate di chiave, in modo che nessuno potesse forzare la serratura senza far rumore. Il pregio di una piccola baita personale arroccata su una collina in una località distante dalla propria abitazione di almeno duecentocinquanta km e sperduta in una boscaglia, era quello di essere molto isolati, salvo alcune piccolissime casette abitate per lo più da boscaioli e vacanzieri improvvisati dei week-end, e poter quindi permettere una totale intimità con la propria persona. Viceversa la casa, essendo isolata, poteva anche essere preda (quasi) sicura di intrusi in cerca di fortune monetarie o comunque di valore. Per questo, dopo aver chiuso cancello e garage, spense le luci e ricontrollò per la seconda volta tutte le serrature di porte e finestre, ovviamente chiuse dall’interno.
Una volta accertato che ogni cosa fosse al proprio posto poté finalmente rilassarsi e, salite le scale che portavano da garage a cantina a salotto, si concesse una birra che bevve in poche sorsate. Il viaggio l’aveva sfinito, non tanto per la lunghezza, quanto per l’attenzione che doveva prestare in questo genere di tragitti. Non era mai capitato durante tutto l’anno, ma poteva anche darsi che qualcuno lo fermasse per un normalissimo controllo e lo lasciasse andare dopo aver consultato la sua patente, il suo libretto di circolazione, controllato che l’assicurazione non fosse scaduta ed infine cinguettato qualcosa ad una radio che avrebbe a sua volta sibilato qualcosa. Quel qualcuno però avrebbe anche potuto chiedergli di scendere dalla macchina, e magari fargli aprire il baule.
Avrebbe dovuto improvvisare, perché questa sarebbe stata un’ipotesi plausibile, ma mai verificatasi fortunatamente. La casa era spoglia a prima vista, pareva disabitata da mesi e, comunque quando arrivava, l’inquilino non aveva certo pretese di lussi e comodità cittadine eccezione fatta per la tv collegata al satellite, uno stereo, una sofisticata apparecchiatura per riprendere immagini composta da tre telecamere di diversa grandezza, e sicuramente di diverso uso, ed un pc desktop con hard-disk esterni.
La birra scese come una doccia gelata e refrigerante verso lo stomaco e lì si fermò in attesa dell’uscita, che non avrebbe certo tardato. Se ne concesse un’altra perché la sete era giunta in una delle sue forme peggiori ed un’altra ancora per l’inebriarsi dei neuroni; smise solo quando quel piacevole torpore pscicomentalemuscolare si risvegliò rallegrandolo di molto e portandolo al giusto inizio di un week-end terapeutico e disintossicante.
Accendo la TV. Non c’è davvero un cazzo di niente che valga la pena di essere guardato: sulle reti di stato ci sono in successione 1) Gara canora di dubbio gusto ed alla quale possono partecipare solo ultra60enni a quanto pare. 2) Varietà misto fra canzoni popolari, ballerine dalle tette abnormi ed
interventi strappalacrime. 3) Documentario sugli uccelli migratori. Quest’ ultimo il più interessante sicuramente, anche se avrei di gran lunga preferito un servizio sui coccodrilli o su insetti predatori vari. 4) Danno un film che dovrebbe essere comico. L’ho guardato per due minuti circa e poi la voglia di distruggere il televisore e fare una telefonata di insulti pesantissimi alla rete stessa stava prendendo il sopravvento su di me, quindi ho deciso di cambiare canale. 5) Qui c’è un programma per gente totalmente deficiente che, consapevole della propria deficienza, guarda altra gente deficiente fare quello che tutti fanno in momenti di normalità. Molto autorevole l’inutilità del tutto: dieci persone di età compresa fra 25 e 35 anni stanno chiusi in una casa a litigare sullo sguardo che quello ha fatto a quell’altro, oppure a stringere rapporti di amicizia (in soli due giorni) al limite dell’omosessualità. E come se non bastasse già l’insieme, per il titolo di questa merdata del millennio hanno scomodato addirittura il capo del partito di Oceania. È un vero peccato non essere in quel 1984; sarebbe davvero molto più avvincente osservare queste teste di cazzo mentre vengono torturati a sangue da fratello O’Brien e guardarli, nel loro immenso dolore, mentre contano le dita della O’Brien-mano pensando ad una risposta che possa alleviare loro terribili pene. 6) Programma finto snob per finti fighetti che credono di essere trasgressivi. Gente che fa la fila fuori dalle discoteche più costose e che più fa la fila e più fa figo dire di essere andati in quel locale. Se poi non ti fanno entrare è ancora più figo, e se per caso entri e ci lasci 200€ per aver preso un tavolo del cazzo con una bottiglia di ruhm del cazzo e senza nemmeno le sedie del cazzo, sei il re dei fighi.
Dopo un’ora di zapping fra queste schifezze, mi ritrovo quindi a guardare quello che meglio c’è in TV: una replica di Playboy Late Night di chissà quale anno. La Playmate del mese mi sta facendo vedere le sue immense tette; rifatte ovviamente. Personalmente odio le tette rifatte, preferisco tettine microscopiche invece di bocce deformi tipo Janet tettefinte Jackson e/o simili mostri della chirurgia. Vuoi mettere la sensualità di un paio di tette che, timidamente, ti strizzano l’occhio pensando di passare inosservate? Comunque, tette a parte, mi ritrovo ipnotizzato davanti alla TV ed, accertato che le Playmates americane mi fanno cagare, prendo la saggia decisione di spegnere lo schermo. Nel momento in cui il mio dito pigia il tasto rosso del telecomando, un favoloso vuoto si impadronisce della stanza, ed è proprio come se letteralmente “occupasse” la stanza e la persona “Silenzio” sedesse accanto a me per una piacevole conversazione.
Lo scruto dall’alto al basso per rendermi bene conto di colui che mi appare come un perfetto figurino, quasi d’annata; il suo vestito nero e la sua cravatta viola mi fanno pensare ad un maitre di qualche albergo extralusso. Lui ricambia il mio sguardo con un sorriso riverente e, prima che io possa pensare qualcosa, mi dice:
“Sono qui per servirla. Questo dev’essere un week-end di totale rilassamento per lei. Lasci fare a me le cose più “scoccianti”. Non si preoccupi di nulla e mi chieda qualsiasi cosa di cui lei abbia bisogno. Penso io a tutto quanto.”
“Ho voglia di musica rilassante” dico io “Di qualcosa che faccia viaggiare un po’, occhi chiusi e pensare. Capisci?”
“Certamente” risponde Silenzio “Secondo me le potrebbe andare una cosa tipo Ummagumma dico bene?”
“Mhm, si bersaglio centrato” rispondo.
Silenzio si alza, estrae il disco studio, lo inserisce nel lettore ed il mito di Sisifo riempie la stanza coi rumori dei piatti di Mason che, in preda a chissà quale acido strano, percuote la sua Ludwig. Peccato che Silenzio se ne sia andato, era una buona compagnia. Due minuti dopo penso che non c’è problema: ho da fare stasera ed adesso ho da rilassarmi un pochino, in fondo sono venuto qui per questo. Senza alzarmi dal divano estraggo tutto il necessario per un adeguato ascolto dell’album e, costruito il petardo con una White Widow davvero, davvero, davvero demoniaca, mi porto un posacenere vicino ed il salotto si riempie del classico odore di vegetale santo.
L’apoteosi arriva quando inizia “Several species of small furry animals gathered together in a cave and grooving with a pict”: I passi decisi-mocassini credo-, il giornale-che mi piace immaginare sia un quotidiano- ed infine la mosca che, sbattuta contro il muro muore e nel trapassare evoca milleeuna voci.
Riesco a togliere lo sguardo, atrofizzato dai sogni jamaicani, solo quando Gilmour inzia a cantare “The Narrow way” e per la precisione mi disincanto perché noto un rumore che non avevo mai sentito in tutte le volte che ho ascoltato questo disco. È come un tonfo sordo e fuori tempo che ogni tanto batte in lontananza. È stupefacente come l’ascolto di un album possa cambiare a seconda dello stato in cui lo si ascolta. In un momento di totale panico, alimentato per lo più dalle birre bevute prima (e dico prima) di fumare, riesco ad alzarmi dal divano e nel farlo mi ci vuole una gru “automontante”; vago da un lato all’altro della stanza, assaporando il passaggio di suoni tra le casse. Il volume è eccellente e non ho problemi ad alzare quanto mi pare perché mi sono preso la premura di insonorizzare la baita in modo serio: praticamente da fuori non si sente nulla di nulla di nulla.
Quando l’album finisce sto ancora girando per la stanza. È stato un ascolto favoloso, ma credo di aver esagerato con miss White perché ancora sento quel tonfo provenire da…
Non arriva dallo stereo
Non arriva nemmeno da questa stanza
Arriva dal garage.
Guardo l’orologio. È mezzanotte e dieci. Scendo le scale ed il rumore si fa decisamente più intenso. Riguardo l’orologio. Mezzanotte e undici. Mi porto una mano sul mento, aggrotto le sopraciglia e osservo pensieroso il baule dell’automobile deducendo che, senza ombra di dubbio, il tonfo (che con la vicinanza è diventato un bussare isterico) arriva da lì.
La cosa mi pare molto strana perché ho dato alle ragazze una dose di narcotico molto superiore a quella dell’altra volta ed avrebbero dovuto dormire per almeno otto ore. Non ho ancora voglia di fare festa, quindi mi guardo in giro in attesa di qualcosa per sedare le ragazze. Trovo un barattolo di vernice rossa in uno scaffale e lì vicino anche un pennello non molto grosso.
Nell’armadio vicino alle scale, davanti al muso dell’auto, prendo il cloroformio ed uno straccio avvicinandomi al baule. Nell’aprirlo noto, con grande sollievo, che solo la ricciolona mora si è svegliata, mentre la biondina ancora dorme; ne sono molto compiaciuto perché sarebbe stato un peccato rovinarle subito tutte due. Prendo vernice e pennello, mentre la mora mi osserva agitandosi velocemente ed emettendo mugolii isterici dalla bocca, che però è tappata da una pallina fissata da un nastro dietro alla testa in modo che non se ne possa liberare. Le braccia sono legate dietro la schiena con delle corde molto strette ed i piedi con delle catene alle caviglie e la sua testa accanto ai piedi della biondina in modo da vederle contrapposte l’una all’altra. Intingo il pennello nella vernice e mentre una mia mano tiene aperto l’occhio della ricciolona, l’altra le riempie il bulbo oculare di colore. Lei emette versi gutturali fino quasi a strozzarsi e si agita talmente che alla fine le ho colorato tutta la faccia di rosso! Ed è un peccato perché era così caruccia, ma potevo non darle una punizione? Ripongo il barattolo di vernice ed il pennello, prendo uno straccio versandoci sopra una buona dose di cloroformio e mentre glielo porto al naso ho quasi la tentazione di strapparle un dente con una pinza che ho notato li vicino, ma mi sento buono e non lo faccio.
Simone Mainini gennaio 2007
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