Verosimiglianza

Racconti


E sono quattro.
Quattro notti che non riesce a dormire; e forse è meglio così, anche se gli occhi gonfi dal pianto avrebbero di certo il loro sollievo se potessero chiudersi in un sonno ristoratore.
Privo di sogni, però… Perché altrimenti sarebbero incubi.
E dolore!
Dell’ultimo porta ancora il segno sul braccio: una ferita ricevuta da un colpo di machete mentre esplorava la riva sinistra del Rio delle Amazzoni, poco a più sud di Manaus. E starebbe ancora lottando contro quei due uomini seminudi, spuntati in un baleno dalla foresta, se non le fosse venuta in soccorso la fortuna poiché, grazie ad un rapido scarto onirico, riuscì a trasportarsi in un fumoso ma tranquillo bar di provincia. Lì, un gentile e solerte barista le diede tutto il necessario per medicarsi la ferita convincendola a rimanere in una stanza del motel di sopra per la notte.
Bastò sdraiarsi sul letto e chiudere gli occhi per addormentarsi che, dopo pochi minuti – così le sembrò – si svegliò per ritrovarsi nella sua stanza da letto, in quello squallido appartamento che abitava da anni, in quella odiosa città dalla quale, più volte, aveva sognato di scappare, lontana svariati chilometri da quella Amazzonia che aveva esplorato nella notte appena trascorsa.
Subito il dolore al braccio la sorprese e toccandolo con la mano s’accorse che era umido. La luce che filtrava dalla finestra non era abbastanza forte da poter vedere e allora dovette allungarsi per accendere l’abat-jour sul comodino, imprecando per il dolore che questa azione le inferse.
Appena riuscì finalmente ad osservare cosa avesse il suo braccio, s’accorse di quella lunga ferita sanguinante dai bordi slabbrati in modo eccessivo e capì subito che era accaduto un’altra volta: di nuovo un suo sogno si era tramutato in realtà
così che quella lotta sulla riva del fiume aveva lasciato in ricordo questo doloroso squarcio sul braccio che ora doveva necessariamente medicare. Soltanto non riusciva a capire perché fosse ancora così sanguinante se quel cameriere al bar l’aveva aiutata a disinfettarlo e a mettere sopra una garza. Non riusciva a ricordare cosa fosse successo dopo. Si era addormentata sul letto di quel motel e poi…. Poi si era ritrovata qui, nella sua camera da letto di sempre ma con il braccio ancora sanguinante.
È da quel giorno che non dorme. Ha paura che sognando un’altra volta possa farsi di nuovo del male e, magari, in modo più serio. Non riesce a comprendere come possa accadere tutto ciò e ancora pensa a cosa sia successo, nelle ore successive al momento in cui si è addormentata nel motel, in quella notte di quattro giorni fa. Si sforza di provare a ricordare ma inutilmente. Ha sensazioni strane, vaghi ricordi che non riesce a focalizzare ottenendo come risultato soltanto un doloroso e fastidiosissimo mal di testa.
Pur volendo non sa a chi chiedere aiuto. Da quando è scappata con Julien dal suo paesino di campagna francese non ha più un parente a cui possa rivolgersi. I genitori, i fratelli ed anche gli amici più stretti le hanno voltato le spalle ed ora, che anche Julien è andato via, è rimasta completamente sola. E poi, sinceramente, a chi poter raccontare che i suoi sogni la tormentano in un modo che più reale non si potrebbe? È sicura che tutto questo debba avere un senso e che soltanto riuscendo a spiegare questo mistero troverà la strada per uscirne. Se almeno ci fosse il suo Julien accanto a lei, saprebbe trovare la forza ed il coraggio di lottare con maggiore convinzione contro questa maledizione. L’uomo dei suoi sogni, però, quello con cui aveva sperato di costruire il suo futuro, il migliore possibile, è sparito una notte di tre anni fa, mentre entrambi dormivano, senza lasciare traccia, senza un motivo che potesse spiegarle il perché.
E nessuna notizia ha più avuto di lui: il mondo addosso avrebbe fatto meno male.
Riuscire ad andare avanti da sola è stata durissima e se c’è riuscita è perché nel corso degli anni ha tenuto sempre vivo il ricordo dell’uomo che era Julien, soprattutto al tempo dei loro primi incontri. E in mente, ben presente, teneva e tiene quella sera d’estate trascorsa a stare sdraiati sul prato. Quella del primo bacio, che venne dopo ore ed ore di chiacchiere e bottiglie di Borgogna rosso d’annata accompagnate da un buon formaggio di mucca. Fu proprio quella sera che lei, ad un tratto, gli chiese:
«Ma tu ed io siamo amici, o cosa?»
E lui di rimando le diede quella strana risposta che lei ancora ricorda a memoria perché fu l’inizio della loro storia d’amore:
«L’amicizia è una sottospecie dell’amore. È un amare diverso, in sostanza.
Per uno come me che da molto tempo, ormai, ha preferito abbandonare la strada indicata dai palpiti del cuore – e vista la premessa – l’amicizia è un qualcosa da lasciare ai margini di un vivere che fa dell’egoismo il mezzo che giustifica il fine.
Mi chiedi quale?
Sopravvivere…»
Fu a questo punto che lei si avvicinò per baciarlo e fu il bacio più lungo ed appassionante che lei ricordi ma che mai più potrà ripetere.
Almeno con Julien.
Ricorda quell’uomo al motel, adesso. Rammenta che l’aiutò ad entrare in camera e a sdraiarsi sul letto. Ricorda che poggiò il braccio in modo che non potesse dolerle mentre dormiva e che cercò di addormentarsi. Che cosa sognò quella notte? In quale altro posto del mondo andò a finire? È uno sforzo incredibile cercare di ricordare ed il mal di testa che aumenta sempre più certamente non facilita la cosa.
Ad un tratto un’immagine le attraversa la mente. Un viso dolcissimo incorniciato in biondi e lunghi capelli che si lasciano accarezzare sotto un cielo di stelle. E poi svanisce… Non è stata capace di fissarlo bene quel viso, è stata un’immagine troppo fugace ma quell’atmosfera che è riuscita a cogliere, seppure per un piccolissimo istante, le ha lasciato addosso un senso di déjà vu quasi fastidioso e accattivante allo stesso tempo. Si rammarica del fatto che sia così difficile inquadrare quel volto e nello stesso tempo ha paura per quello che le sta accadendo convinta che questa strana situazione debba ancora avere il suo totale sviluppo.
Ed ha visto giusto.
Alle 04.20 del mattino del quinto giorno, crolla in un sonno inevitabile quanto pesantissimo che la porta subito nel buio più totale. Sente il suo respiro, capisce di trovarsi sdraiata per terra su un pavimento fatto di assi di legno. Non capisce dove possa trovarsi e il dolore al braccio è ancora forte ma, toccandolo, si accorge che è stretto in una fasciatura. Strano… si ricordava di averne tastato l’umidità causata dal sangue poche ore prima.
Era questo il sogno o la realtà?
Era sul letto di quel motel ed era sul punto di addormentarsi quando bussarono alla porta: era il ragazzo del bar che l’aveva aiutata. Disse di averle portato da bere e da mangiare e se lo avesse fatto entrare avrebbe potuto offrirle quanto portava, oltre a medicarle ancore la ferita al braccio.
Lei aprì senza nessuna remora e d’un tratto si trovò scaraventata a terra… si, adesso comincia a rammentare l’odore rancido della sua bocca a pochi soffi di respiro dalla sua. Il suo peso addosso e le mani che l’avvinghiavano a tenerla stretta. Non era il giovane barista a gravarle pesantemente addosso, però, bensì un altro uomo dalla capigliatura bionda e dal fisico agile e muscoloso. Ricorda bene come abbia tentato di divincolarsi inutilmente e, poi, come abbia ceduto alle maniere forti di quell’essere violento.
La ferita al braccio, ormai, sanguinava abbondantemente e lei quasi si era abituata a quel dolore costante che, in altri casi, sarebbe stato insopportabile. Dopo averla immobilizzata legandole con una corda i polsi, l’aggressore la imbavagliò e le infilò la testa in un sacco facendo bene attenzione a non farsi vedere in viso, aiutato in questo da un cappello con larga visiera che indossava quasi completamente abbassato sugli occhi.
Ma c’erano quei capelli biondi… Chi le ricordavano?
Insomma, era stata rapita ed ora sentiva di essere trasportata – ma su quale mezzo? – verso qualche destinazione che a lei, pur domandando, non era stata indicata. Capiva di trovarsi accanto ad una persona – probabilmente l’aggressore – ma non capiva se ci fossero altri accanto a lei e soprattutto le pareva di sentire rumori di zoccoli. Si stavano forse muovendo su una carrozza? «Di questi tempi ancora ne esistono? » si ricorda di aver pensato.
E il viaggio fu lungo, davvero molto lungo fino a quando, finalmente, si fermarono e allora colui che le stava accanto le disse: «adesso le tolgo il cappuccio e il bavaglio. La prego di non strillare e di non tentare alcuna mossa, altrimenti sarò costretto a renderla inoffensiva.»
Questa voce… La conosce, ne sente ancora echi lontani persi nei ricordi…
E così riuscì a vedere dove si trovava: un portone enorme in legno, ingresso ad un castello medioevale che incuteva timore soltanto a vederlo. Ricorda bene, adesso, che venne portata in una cella nelle segrete dove venne rinchiusa per un numero imprecisato di giorni e dove fu costretta a mangiare con le mani quel poco che le portavano e a dormire su un giaciglio fatto di paglia. Una notte poi – poteva dirlo con certezza perché fu trascinata all’aperto – venero a prenderla quattro o cinque persone, incappucciate e vestite con una tunica. Avevano delle fiaccole in mano ed emettevano un costante lamento che già dopo qualche minuto si insinuò così profondamente nella sua mente da renderla quasi completamente soggiogata.
Le fecero odorare qualche sostanza che ebbe il potere di ridurla senza forze, in totale balìa di quegli individui che non smettevano mai di cantilenare. Fu trasportata di peso in un grande salone del castello – attraversando prima il grande porticato che lasciava vedere un cielo pieno di stelle – semibuio perché l’unica fonte di luce era un enorme camino posto al centro della stanza. Fosse stata un’altra circostanza, si sarebbe fermata ad ammirarlo: era di forma circolare abbastanza ampia, posto su un basamento costituito da pietre di un rosso scuro e le pareti che costituivano il focolare vero e proprio sembravano essere di granito, o comunque di un materiale molto resistente e scuro. Vide degli strani attrezzi che erano stati messi ad arroventare sul fuoco che non le fecero presagire nulla di buono. Si guardò intorno muovendo la testa per quel che le consentivano i suoi aguzzini, così da vedere dove si stessero dirigendo e, dopo un po’, capì che la loro meta era la parete della stanza dove era appoggiato un trono in marmo.
Qui stava seduto un uomo, anch’esso incappucciato, ma mentre tutti gli altri avevano una tunica nera, lui ne indossava una rosso porpora con incise sul petto, con filo giallo oro, le cifre 666. Appena giunti dinanzi a questa persona, coloro che fino ad ora l’avevano costretta a seguirli, la lasciarono immediatamente libera, si inchinarono poggiando un ginocchio per terra e rimasero con la testa abbassata.
L’uomo, quello con la tunica rossa – che sembrava essere il capo di quella cerchia – si alzò, allora, dicendo: «che inizi il rito della fertilità e che nessuno osi violare questa donna prima che l’abbia fatto io.»
Ancora quella voce…
Non dovette aspettare molto per scoprire a chi appartenesse e per poco non svenne. La persona che adesso le stava davanti e che si era appena tolta il cappuccio, altri non era che il suo Julien! Ma come poteva essere tutto questo, e che significava?
Aveva sul viso un’espressione fra l’esaltato ed il feroce e mentre si avvicinava a lei tolse dall’ampia tasca della tunica un pugnale dalla lama molto lunga. Ordinò ai suoi adepti di svestirla, di posarla sul tavolo di marmo – quello che lei aveva appena intravisto nell’entrare nella stanza – e di legarla ai ganci che erano presenti sul bordo del tavolo stesso. Quando questa operazione fu fatta, Julien si avvicinò lentamente e così cominciarono le ore più brutte che la nostra protagonista abbia mai avuto modo di sognare.
Eh si… Perché, teniamolo presente, questo è il resoconto di un sogno…. O di quello che si crede un sogno…
Cosa accadde, poi?… La donna si sforza ancora di ricordare, sempre cercando di capire, ancora, dove possa trovarsi e come riuscire ad andar via da quella stanza buia e fredda. Un modo sarebbe addormentarsi… Potrebbe accadere di peggio, però.
Continua a ricordare, intanto.
Mentre Julien era davanti a lei e pronunciava frasi senza un apparente significato, altri quattro uomini incappucciati, con dei carboni spenti disegnavano qualche tratto di linea sul suo corpo nudo provocandole anche un sottile brivido di piacere.
Accadde tutto all’improvviso tanto che non ebbe il tempo di gridare o di ribellarsi – anche se sarebbe stato inutile – a quanto era sottoposta: venne violentata ripetutamente ed in modo brutale anche con oggetti che sembravano squarciare ed arroventare le carni. Ricorda che il primo volto che vide chino su di lei fu quello di Julien che con ghigno sadico s’affannava a compiere quello che per lui pareva essere in tutto e per tutto un rito sacro. E poi gli altri, ed altri ancora in una spirale di dolore e vergogna ed umiliazione ed impotenza che la lasciarono presto priva di sensi.
È ancora qui… su questo freddo pavimento… senza ricordare altro. Non ne ha la possibilità. Tutto il corpo è coperto di bruciature, ha segni rossi come strisce di sangue sul petto e sulle cosce… Forse causati da una frusta. Lividi neri tappezzano quell’esile fisico che, però, evidentemente, è stato in grado di sopportare chissà quale supplizio. È stanca. Molto stanca. Nonostante il dolore, proverà a dormire, incurante di poter trovarsi in un altro incubo peggiore di quelli già vissuti.
Il sonno, però, prende il sopravvento e allora riprende a sognare. Si ritrova in una stanza di ospedale, questa volta, e sembra essere passato del tempo, un bel po’ di tempo… Almeno nove mesi.
È sul letto, si sente molto stanca e, come al solito, è dolorante in ogni parte del corpo. Comincia a guardarsi intorno per cercare di capire in che reparto possa trovarsi e appena scorge una piccola culla vicino al suo letto, comprende esattamente dove sia.
Un bimbo! Ha avuto un bambino! Non può resistere – perché dovrebbe? – alla tentazione di alzarsi ed andare a vederlo. Non sa come sia potuto accadere, ma che importa? Da tanto tempo avrebbe voluto essere mamma ed ora che lo è crescerà il suo bimbo con amore e dedizione.
Si avvicina lentamente, allora, poggia le mani alle sbarre della culla e si china in avanti per guardare. Un colpo al cuore, un terribile dolore in petto le portano lacrime agli occhi ed un grido straziante alla gola. Ciò che vede è un bimbo con gli occhi sbarrati, le pupille dilatate che si muovono freneticamente a destra e sinistra ed un ghigno sadico sulla bocca.
È una maschera orrenda a vedersi, ed ancora più terribile è sentire le parole che quella bocca, storta in un parlare sussurrato, s’apprestano a dire: «buongiorno mammina, ti sei divertita l’altra sera? Sono stati bravi i miei amici a giocare con te?»
«Julien» si ritrova a gridare « Julien sei tu? Rispondimi!
Che razza di scherzo è questo?»
Nel gridare queste parole, s’avventa sul bimbo e comincia a scrollarlo, a premere le mani sul suo viso finché le stringe intorno al collo e, incurante del suo pianto e dei suoi soffocati vagiti, stringe forte fino a togliergli del tutto il respiro allentando la presa soltanto quando s’accorge che quelle pupille in continuo movimento si fermano in uno sguardo assente, privo di espressione e un rivolo di saliva scorre dalla bocca.
É sparito, ormai, quel brutto ghigno che tanto l’aveva turbata ed ora il suo Julien è ritornato ad essere bello come lo è sempre stato.
Monique Damien verrà condannata per l’omicidio del suo bambino e le verrà concesso di scontare la sua pena in una struttura medica specializzata per la cura delle malattie mentali.
Da tempo soffriva di forti crisi di personalità che la potavano a vivere lunghi periodi di depressione. Viveva un mondo tutto suo con personaggi creati dalla sua fantasia anche cattivi a suo dire, che usavano violenza su di lei. In verità era lei stessa a procurarsi lesioni, graffi, profonde ferite, fratture che col tempo erano diventate sempre più gravi. Oh certo, disse il marito in tribunale, avevano cercato di curarla e lo stesso psichiatra consigliò di provare ad avere un bimbo, così che Monique potesse essere occupata a rivolgere la sua attenzione al nuovo arrivato e, prendendosi cura del bambino, rivestire il ruolo di mamma riconoscendolo come il più necessario ed anche più “realistico” da ricoprire.
Ben presto il marito si stancò di quella moglie pazza e visionaria. L’ultima volta che andò a trovarla in clinica, lei gli disse di essere stata in un luogo fantastico dove aveva incontrato il suo bambino. No, non era morto, più precisamente si era reincarnato in un gatto; le aveva detto di chiamarsi Abraxas e presto sarebbe ritornato da lei…

Robert Strange (ciao.it) 31.01.2006

RACCONTI DELLO STESSO AUTORE: Questo Sarà il Mondo?Una Giornata da RicordareFresco di GiornataChe sia la Giornata Giusta?In Mezza Giornata

Email: [email protected]

indice racconti

INVIA IL TUO RACCONTO