Vendetta

Racconti


“Armon Foster è morto, assassinato brutalmente stanotte, prima con… tik.”
Clarence Foster, seduto al buio nel suo studio spense la radio, che parlava di notizie inutili, per lui, e pensava a quanto fosse crudele e grama la vita, a quando non si hanno più obiettivi e quando tutto ormai è perso. Gli ritornavano in mente gli occhi azzurri e terrorizzati di suo padre quando si era presentato a casa sua con un coltello, e quel piacere, quel piacere impagabile che mai nessuno gli avrebbe tolto nel vedere quell’uomo inutile prima di morire, e a sua volta vedere tutta la vita passargli davanti. Armon Foster era un uomo d’affari molto ricco e abbastanza in vista, con una, come la definiva lui in termini normali, famiglia. Clarence era il fratello maggiore, la sorella, Naomy, era morta in un incidente stradale. Quell’idiota di suo padre chissà dove aveva passato la notte, la moglie, Annie, lo aveva chiamato per chiedergli di andare a prendere Naomy alla scuola materna dato che aveva qualche linea di febbre, ubriaco com’era, nel ritorno, Armon non fece caso al camion che arrivava da destra, lo scontro fu fatale; pochi minuti dopo furono portati di corsa all’ospedale. Lui tornò a casa il giorno dopo con una frattura al braccio sinistro, ma per la bambina, la situazione era diversa: aveva subito una grave lesione al cervello causata dall’impatto col vetro al momento dello scontro, ed era finita in coma. Pochi giorni dopo, mentre Clarence e sua madre sedevano nella stanza d’ospedale accanto al letto di Naomy, la macchina che segnava il battito cardiaco d’un tratto sembrava impazzita; furono praticamente buttati fuori dalla stanza per permettere ai medici di intervenire. Pochi minuti che durarono un’eternità, insulsi secondi, nei quali la vita di sua sorella finiva. Ricorda ancora la faccia scura del medico che si era preso carico del compito più importante: uscire da una sala operatoria, e pronunciare inutili e comunissime parole, orribili parole, che nessuno avrebbe mai voluto sentir pronunciare in quelle circostanze: “mi dispiace, abbiamo fatto di tutto…”Sua madre era sconvolta, Clarence era confuso, in diciannove anni non aveva mai visto Annie in quello stato. Al sentire la notizia del medico aveva lanciato un grido di disperazione soffocato e poi le lacrime. Suo padre era già partito per un viaggio d’affari nonostante le condizioni di Naomy, sua figlia.
Non gliene frega niente al bastardo…
Pensava, e questo pensiero continuò ad allargarsi nella sua mente per giorni, mesi, anni, fino a trasformarsi in odio, odio puro, e desiderio di vendetta. Rabbia, un accrescere di rabbia che doveva sfogarsi, e quella notte, lo aveva fatto.
Quei ricordi lo ferivano e lo pugnalavano al cuore, la madre che cadeva in depressione lo aveva sconvolto, e aveva fatto crescere il rancore verso suo padre, sì, perché la colpa era soltanto di Armon. In questi ultimi tre anni Annie aveva avuto solo la compagnia e il sostegno di Clarence, fino al momento in cui era finita in una clinica psichiatrica. La cosa sembrava non aver toccato più di tanto Armon, era a dir poco indifferente, e sempre impegnato col suo maledetto lavoro mentre sua moglie impazziva per la sua strafottutissima vita. Ora basta, quell’uomo doveva pagarla per tutto il male che aveva fatto, agli altri e alla sua famiglia.
Ora Clarence aveva raggiunto il suo obiettivo, era null’altroché un uomo seduto su una normalissima sedia, senza più scopi nella vita, che ascoltava con soddisfazione la morte di quella bestia di Armon Foster ed un sorriso compiaciuto gli si stampava in viso.
Aveva aperto un cassetto dal quale aveva estratto una bustina bianca, solo così riusciva a rilassarsi, e così voleva godersi la libertà, la morte e l’eredità di Armon. Aveva inspirato a fondo e iniziato a rivivere quella notte senza alcuna emozione o rimorso, solo soddisfazione, soltanto soddisfazione.
Erano le due di notte, Clarence si era assicurato che suo padre fosse a casa, poi si era recato al suo palazzo invidiato da chiunque con la scusa di parlargli di un affare importante; perché ormai parlavano soltanto di quello. Era entrato cercando di nascondere col gomito una parte del manico del coltello che teneva nella tasca destra della giacca di pelle.
«Perché porti dei guanti?»
Era la prima cosa che gli aveva chiesto Armon dopo che Clarence era entrato, era Luglio.
Idiota, non posso mica lasciare impronte digitali su oggetti che potrebbero incriminarmi, ma tra poco vedrai perché porto dei guanti, tranquillo…
Aveva pensato, e subito dopo aveva estratto dalla tasca il coltello e glielo aveva puntato alla gola.
«Perdio Clarence, che diavolo fai, sei pazzo?»
No, non era pazzo, era pieno di rabbia e odio.
La sensazione di piacere che provava in quel momento era fortissima, quasi una sorta di divertimento nel vedere Armon con quell’espressione da bambino spaurito e confuso; quella soddisfazione che mai nessuno gli avrebbe tolto nel leggere negli occhi di suo padre la paura di morire.
Più lo guardava e più ricordava, più lo pregava di mettere giù il coltello e parlarne e più saliva la rabbia. L’avrebbe pagata per tutti, per Naomy, per Annie, e per quello che aveva fatto passare a Clarence; qualcuno finalmente avrebbe avuto un po’ di giustizia. Lo voleva torturare.
L’aveva legato alla sedia, e con del nastro adesivo gli aveva bloccato le mani, le caviglie e tolto la facoltà di parlare stampandogli un pezzo di nastro anche sulla bocca, non voleva più sentire una parola uscire dalla bocca di Armon Foster; voleva soltanto vedere la morte che gli si dipingeva poco a poco in viso.
Clarence aveva preso il frustino che suo padre teneva nell’armadio, e quando era tornato, l’uomo, alla vista del frustino aveva iniziato a dimenarsi come un ossesso nel tentativo di liberarsi. Non c’era alcuna fretta, aveva pensato Clarence.
Così, molto lentamente, tolse il nastro adesivo dalle mani del padre e lo fece piegare fino a farlo arrivare a toccare col naso le proprie ginocchia. Voleva godersi ogni singolo istante di quei momenti, Armon stava iniziando a piangere come un bambino e cercava di biascicare qualcosa da dietro il nastro adesivo. Clarence aveva impugnato saldamente la frusta, mentre la sua vittima continuava a dimenarsi ed emettere versi confusi nel tentativo vano di urlare, Clarence non provava un minimo di pena per quell’uomo le cui vene racchiudevano il suo stesso sangue, e che l’aveva fatto tanto soffrire. Subito dopo aveva iniziato a battere con violenza l’arnese sulla schiena di Armon, mentre sentiva quei gemiti di dolore ostruiti dal nastro adesivo, e la camicia del padre dipingersi di sangue come un quadro dipinto dal dolore e dalla follia umana. Dopo cinque o sei frustate Clarence si era fermato, i suoi occhi erano lucidi come quelli di un bambino nell’attesa di scartare un regalo, e l’eccitazione iniziava a salire al pensiero di quello che avrebbe fatto adesso.
Aveva girato intorno alla sedia in modo di trovarsi davanti ad Armon, gli aveva sollevato il viso e gli aveva tirato un mal rovescio per risvegliarlo dal suo stato confusionale. Voleva parlargli, voleva dirgli che razza di uomo era stato.
«Bastardo! Te la ricordi questa, eh? Naomy… è la sua collana, gliel’avevi regalata quando ha compiuto cinque anni, ricordi com’era felice? Lei ancora non sapeva che schifo di persona sei… pensavi di migliorare le cose in questo modo? Con uno stupido e insulso regalo?! Quante volte ti abbiamo visto a casa noi? E la mamma? Dio, la morte di Naomy l’ha distrutta…ed è successo per colpa tua! Ma tu che hai fatto? Te ne sei fregato! Certo, non ti è mai importato un accidente di noi, hai portato alla rovina questa famiglia! È ora di pagarla, la devi pagare, per tutto il male che hai fatto a noi e agli altri!»
Clarence era diventato rosso dalla rabbia, era accecato dall’ira. Sembrava avere avuto un capogiro e si era appoggiato al mobile dietro di lui con la testa rivolta verso il basso ed una mano che la reggeva come se non fosse più stata attaccata al collo. Aveva iniziato ad assumere l’atteggiamento di un pazzo che delira isterico, e con le lacrime agli occhi continuava a blaterare qualcosa. Dopo qualche minuto era tornato in sé, mentre Armon sembrava non curarsi dei dolori lancinanti provocati dalle ferite della frusta, ma di quello che sarebbe successo ora.
Clarence aveva estratto nuovamente il coltello dalla tasca e con aria minacciosa si era avvicinato alla sedia che ora era la trappola mortale di Armon Foster; per evitare sorprese da parte dell’uomo Clarence gli aveva legato di nuovo le mani col nastro adesivo dopo averlo fatto alzare. Sempre con il coltello puntato sulla schiena del padre, Clarence gli aveva ordinato di saltellare su due piedi per camminare dato che aveva le caviglie bloccate quasi come oggetto di scherno. Lo aveva condotto fino al bagno e poi buttato in malo modo dentro la vasca, voleva fargli sentire l’acqua che poco a poco riempiva la vasca e svuotava lui impedendogli di respirare per sempre. Clarence aveva girato la manopola dell’acqua fredda con un sorriso compiaciuto.
«No, non me ne vado subito, voglio godermi lo spettacolo Armon Foster, o papà? Hai smesso di fare del male alla gente.»
Quelle parole che andavano a confondersi col flusso dell’acqua che scorreva limpida dal rubinetto in oro, suonarono nelle orecchie di Armon come una condanna, la fine di tutto. E di nuovo le sue lacrime che si confondevano con l’acqua. Dolce e salato.
L’acqua si era alzata raggiungendo qualche centimetro dal fondo, Clarence, come tocco finale, aveva sollevato l’uomo prendendolo per i suoi capelli grigio-nero fino a trovarselo di fronte, e mentre riusciva a tenere gli occhi aperti a stento, Clarence aveva ripreso la sua complice lama argentea e aveva graffiato di striscio Armon sul petto, avendo come riscontro un grido di dolore soffocato. Sangue, dolce e salato.
Aveva mollato la presa lasciando cadere l’uomo a peso morto nell’acqua e nella sua agonia. L’acqua ormai aveva raggiunto la bocca, il naso, poi gli occhi… e Clarence seduto su uno sgabello di fronte alla tomba di Armon guardava la scena conquistato, inebriato come un artista di fronte ad una delle sue migliori opere. Sorrideva, sorrideva davanti all’impotenza del padre che ora avrebbe potuto uscire da quella vasca soltanto dopo esser stato scoperto da qualcuno e caricato su una barella.
L’effetto della cocaina era svanito, Clarence Foster era di nuovo un uomo con i suoi ricordi, che forse nessuno avrebbe mai saputo. Aveva ripensato alle sensazioni intense provate quella notte, e aveva scoperto una nuova parte di sé: il sadismo. Ora era ancora immerso nel buio del suo studio seduto su una sedia qualsiasi, davanti ad una scrivania piena di carte, penne, fogli e documenti; ma lui teneva lo sguardo fisso su di un coltello. Ora i suoi occhi si erano stretti fino a diventare due fessure e sul suo viso era spiccato il solito sorriso, ma questa volta era diverso. Aveva indossato un paio di guanti, afferrato il coltello ed era uscito di casa.

“Dedicato a Marco, il mio Don.”

Venus 25.02. 2005

RACCONTI DELLO STESSO AUTORE: Il Luogo del non Ritorno

Email: [email protected]

indice racconti

INVIA IL TUO RACCONTO