Sono io, il tuo Dio
Titolo: Occhi Rossi
Autrice: Adele Patrizia D’Atri
Editore: Lulu
Pubblicazione: 2007
Prezzo: 10.50€
Compralo e/o leggi la recensione
“Sciocchi, assorbiti da menzogne… vi raggirerò, vi ucciderò…
Sono io, il vostro Dio.
Vi piace divorarmi con gli occhi, vi piace alimentarvi della mia forza. Mi amate. Venerate una parvenza, lati oscuri.
Pecore. Ecco cosa siete.
Ed io chi sono?
Un mietitore di vite, un Dio. Il vostro.“
Volge le spalle all’uscio di casa e scende in fretta le scale. Una abituale serata lo attende.
Eccolo, possiamo vederlo lì in mezzo a quelle sventole semi-nude. Pare si divertano.
Lui sembra un Dio e pensa di esserlo. Le donne che lo accerchiano e tentano di sedurlo, anche.
A fine sera ne sceglierà una. La prescelta. E così passano le sere insieme agli anni. Passano i minuti con le ore. E lui è lì che rimane intatto nel suo sfavillante corpo. Non risente del tempo, si direbbe…
“Questa rossa non è male… Farebbe tutto per me… ma sono stufo… Voglio fare qualcosa di insolito, confessare.“
Così si reca nella vicina centrale di polizia e fa un lungo elenco dei suoi misfatti, non economizzando sui dettagli.
Poi conclude:
“In fondo anche Poe lo ha scritto nel cuore rivelatore, no?”
Allude alla piena confessione, ma gli agenti non capiscono. Per dirla tutta neppure ci provano.
Quello è un pazzo, uno squilibrato fuori ogni misura. Uno da rinchiudere a vita e gettare la chiave della sua cella nelle fogne, sperando che qualche grosso ratto la ingoi e che ne muoia squarciato anche lui. Al diavolo! Maledetti assassini. Si nascondono sempre dietro a tragedie con cui mitigare le loro colpe. Come se le vivessero solo loro. Ed i poliziotti allora? Non sono uomini anche loro? Non hanno anche loro drammi alle spalle? Eppure sono lì un giorno dopo l’altro, ad invecchiare dietro le cazzate di quei maniaci. Credono che pentendosi possano riscattare in saldo la loro vecchia anima. Che svendendosi a buon prezzo, durante il processo, saranno accolti, dopo la morte, nel regno dei cieli. Dannati! Ecco cosa sono.
Ma non è così. Oh quanto si sbagliano. Lui non è affatto pentito, né agogna fantomatici regni dei cieli. I suoi progetti sono altri. Se è lì è per promuovere la sua attività, non certo per rinnegarla. Insomma vuole solo cambiare aria, provare nuove cose. Nutrirsi di avvenenza e basta non lo appaga più. Magari potrebbe scorgere qualcosa d’interessante in quei muli di poliziotti. Magari potrebbe rintracciare del coraggio in loro… anche se comincia a dubitarne. Nelle loro menti vede solo frustrazione ed indolenza. In alcuni presunzione, ma di coraggio manco a parlarne. Forse potrebbe avere la fortuna di finire in cella con qualche artista del crimine. Chissà, magari un genio del male.
Invece si trova rinchiuso in cella con un soggetto buono a nulla, per niente prestante e tanto meno intelligente. Tra l’altro, costui, comincia immediatamente ad intervistarlo:
“Di’ un po’, cosa hai fatto? Io sono dentro per rapina a mano armata, c’è scappato il morto. Ne avrò per un bel pezzo.”
Deluso non lo degna di uno sguardo, si stende sulla sua branda incrociando le braccia sotto la testa e si mette a fantasticare. Avverte il vigore del mare, la brezza. Vede nuvole coprire il sole e incupire occhi azzurri. I suoi, da bambino. Non merita risposta un simile tonto. Uccidere per sbaglio, senza capirne il valore, la letizia. Senza intuire la finitezza del sangue che scorre lungo le pieghe di un corpo. Quello stesso sangue che impregna le sue mani ogni sera, di cui a volte si nutre. Immagina di essere davanti lo specchio della sua stanza dopo aver ucciso. Si vede racimolare preziose stille del fluido rosso che si riversa dai corpi dei martiri. Si vede tingere il viso con il prezioso liquido che cancella il tempo, i ricordi, i pensieri penosi. Sangue. Per lenire il dolore. Per lenire la vita.
L’imbecille potrebbe tornargli utile, però.
“Come ti chiami?” gli chiede senza guardarlo, eppur vedendolo.
“Agostino” risponde l’uomo impressionato.
“Chi è quell’uomo biondo che mi sta osservando al di là della grata?
“Lo psichiatra del carcere. Noi lo chiamiamo avvoltoio. Sta lì in attesa di vederti cedere e poi ti usa per strani esperimenti. Vuoi un consiglio amico? Fai in modo di non doverci mai scambiare una parola.”
“Esperimenti? Che tipo di esperimenti?” domanda compiaciuto.
“Non sto scherzando. Mi credi pazzo? Chiedi a chi vuoi. Qui, ogni carcerato lo sa. Crede che i matti possano essere sanati chirurgicamente e che molti ergastolani siano le cavie giuste per sperimentare le sue teorie. Nell’ultima cella di questo braccio c’è un uomo. O meglio, lo era. Ora non so cosa sia. Non lo abbiamo visto più da quando l’avvoltoio lo ha “curato”. Dicono sia un pericolo per noi altri e che rimarrà per un bel pezzo in isolamento. Ma io non ci credo.”
“Un uomo folle, dunque, trasformato forse in un relitto senza cervello dalle capaci o incapaci mani di quell’affascinante psichiatra. E sì, è proprio il caso di conoscerlo” pensa. Si avvicina alle barre e lo chiama. Non con parole, bensì con gli occhi. L’uomo di scienza si avvicina, attratto dal quel prigioniero. Osserva quegli occhi. Azzurri come l’oceano. Quel volto. Magnifico nella sua perfezione. Non è mai stato sedotto da un uomo. Ed ora invece si avvicinava a falcate verso la cella immaginando di baciarlo, di adorarlo come un Dio, il suo.
“Chi sei?” gli chiede.
Lo guarda negli occhi e vede non più la spoglia galera, ma vortici impetuosi di acque blu. Vede gabbiani lanciarsi con grazia a staccare carni di ratti audaci spintisi lungo la battigia in cerca di cibo, o forse libertà. Vede il rosso del sangue, la maestosità della collera, la potenza del male. Oh sì, potrebbe essere il suo miglior esperimento. Desidera farlo suo. Rubargli quegli occhi, il carisma. Adorarlo fino alla morte, dopo averlo imbalsamato. Intanto lui elabora altro. Vede la bellezza dell’uomo scomparire nella polvere. Vuole ingoiare le sue insana teorie. Rapire gli ultimi barlumi di giovinezza di quel corpo. Ma al momento si finge innocuo.
“Sono io, il tuo Dio” il medico non si stupisce di quella risposta.
“Vuoi seguirmi?”
“Perché no? Sei il mio tipo”
A quella risposta il dottore ha un sussulto, un brivido. Di piacere, si intende.
Così si avviano verso il gabinetto scientifico. Un luogo asettico, normale. Nessun attrezzo di tortura né cervelli in “salamoia”. Solo squallore. Macchinari scientifici, un armadietto per i farmaci, un lettino, una scrivania, una poltrona. Niente più. Probabilmente la sala operatoria è occultata dal paravento. Entrati nella stanza, il medico dà corpo alle sue fantasie. Lo bacia, lo tocca, lo ossequia come un Dio, attendendo il momento idoneo per anestetizzarlo. D’altra parte, lui accetta di buon grado le attenzioni. Prima che il medico abbia tempo di prendere la siringa, che conserva astutamente in tasca, lui agisce. Lo guarda con intensità e lo proietta verso figure fantastiche. Stupendamente atroci. Lo psichiatra non riesce a staccare gli occhi da quelli di lui. Attraverso essi giunge finalmente ad ottenere risposte che ha sempre cercato. Senza sezionare cervelli, senza dissertare menti, trova tutte le soluzioni. Capisce. Ora, lucidamente comprende. Nel suo idillio non si accorge delle intenzioni dell’altro. In fondo, anche notandole, avrebbe mai potuto rinunciare all’appagamento della sua remota arsura? Sterili libri buttati lì nelle lunghe pagine della sua assurda vita universitaria. Improduttive dispute con docenti frustrati, superstiti di chissà quali vanagloriosi sogni infantili. Che andassero al diavolo, loro e le loro tesi. Lui ha bisogno di conoscere i perché, non limitarsi a pensare “è così”. Come diavolo fanno a pensare che è così semplice? Ora ha la dimostrazione delle sue teorie. Veraci, non certo balorde e accomodanti come le loro.
Mentre il giovane scienziato si perde in quelle che secondo lui sono le verità assolute della psichiatria, con noncuranza lui gli pianta la punta dell’anello, che porta all’indice, nella colonna vertebrale fino a conficcarla nel forame vertebrale dove, come certamente il medico sa, scorre il midollo spinale. Fa un varco tra due vertebre, lo rigira con presa decisa e vi affonda le labbra a mo’ di ventosa. E risucchia. Tutto. Fin su. Fino al cervello. In fondo a cosa serve la spina dorsale di un uomo se non ad essere adoprata come cannuccia?
Si dissolve nel vento, attraverso la finestra. Attraverso l’aria frizzante della sera. Verso brezze marine. Cosciente di aver preso qualcosa in più della semplice gioventù o bellezza. Cosciente di aver rubato teorie, anni di studio, di fatiche. Cosciente di aver preso qualcosa con cui entrare nella mente di altri uomini. Uomini che non vedono bellezza, ma solo libri. Uomini persi nei loro studi, nelle loro dottrine.
Ora possiede la chiave per accedere anche in quei cervelli. Ora possiede la chiave dell’intelligenza.
Adele Patrizia D’Atri 18.03.2005
Indice dei Racconti di Adele Patrizia D’Atri
Email: [email protected]