Sguardo Azzurro
La pioggia picchia fastidiosamente sul vetro della macchina. Le gocce scendono lievemente, facendo giravolte.
C’è silenzio in auto. Nessuno fiata. Per strada non passa nessuno e non c’è alcuna fonte di illuminazione. Solo i fanali della macchina, solo quella debole luce gialla riesce ad orientarsi nella strada grigia e scivolosa.
Papà svolta a sinistra, sicuro di quel che fa. Dice che siamo arrivati, che è quella la nostra nuova casa. Pronuncia con fierezza quelle parole.
Posteggiamo la macchina vicino alle scale d’entrata, in mezzo al fango e alle pozzanghere. Ci affrettiamo a scendere dai sedili e a prendere le valigie, ciascuno le sue, per entrare nella nuova casa.
Ha un bell’aspetto da fuori: è grande e spaziosa, sembra nuova. Qualcosa mi dice che sia anche pulita e che lì dentro, tra quelle mura, volteggi l’odore di fresco.
Salgo le scale barcollando un po’ a causa del peso della valigia. Davanti alla porta d’entrata c’è un tappeto dall’aspetto trasandato. “Casa dolce casa” c’è scritto.
Entro per primo, non ho bisogno delle chiavi: la porta è socchiusa.
Il pavimento di legno scricchiola sotto i miei piedi e quel suono mi ricorda una corda che si sta spezzando.
La casa è immensa. A sinistra c’è l’entrata per la cucina, una bella cucina. Il lavandino è di acciaio ed una finestra abbastanza ampia offre una spettacolare vista al giardino. A destra c’è la camera dei miei genitori. Le pareti sono scure, come arrugginite. La finestra è rotta: sembra che qualcuno vi abbia lanciato un sasso ma di esso non c’è traccia. Da fuori entra un’aria pungente, una pioggia gelata, un lontano ululato, odore di sangue. Sangue umano e ancora fresco. Qualcosa luccica in quella buia stanza solo per un piccolissimo istante. Un maledettissimo istante. Sono due occhi azzurri come il cielo sereno.
Spaventato raggiungo l’entrata e salgo al piano superiore. Un lunghissimo corridoio si apre davanti ai miei occhi. Mi oriento nel buio camminando lentamente, le braccia tese in avanti. Sbatto contro qualcosa. Mi fermo un attimo perché mi accorgo di avere paura e di deglutire rumorosamente. Stavolta, però qualcosa tocca me. Giuro, non mi sono mosso nemmeno di un millimetro. Un leggero velo di seta mi copre prima la testa poi tutto il corpo. Puzza di sangue e stranamente di latte e miele. Con la mano tremante cerco di togliermelo ma mi accorgo che in testa non ho altro che i capelli.
“Devoraggiungere la mia camera! Una camera qualsiasi!” dico a me stesso sussurrando, il ritmo del cuore che batte all’impazzata. Mi metto a correre mentre lo scricchiolio del legno mi segue. Una corda che si sta spezzando. Una vita che sta finendo. Sangue che sta per essere versato. Il corridoio non finisce mai. Mi guardo indietro e non c’è nulla. Anzi sì, lo sguardo azzurro. Gli occhi azzurri. Scompaiono e ricompaiono rossi. Poi gialli. Poi di nuovo azzurri.
Voglio urlare ma non ce la faccio. Le gambe cedono e cado in ginocchio. Lo sguardo si avvicina sempre più… Si ferma dietro le mie spalle. Quello sguardo illumina il pavimento. Qualcosa galleggia. E’ sangue ma non solo. C’è dell’acqua. Della pioggia. Mi alzo dimenandomi ma non sfioro nulla. Sembra tutto uno scherzo, un’allucinazione. Ho il corpo scosso da fremiti, brividi, palpitazioni e anche tenendo gli occhi chiusi non riesco ad evitare immagini strazianti. Prima gli occhi, poi una testa sgozzata. Gli occhi e poi un
braccio tagliato. Gli occhi e poi un ventre squartato.
Lo sguardo sparisce per un attimo e appare davanti a me una donna. E’ bella. Ha i capelli neri, lunghi fino alle spalle. Ha in testa un cappello da infermiera. Veste un camice bianco e ha in mano una siringa ed un coltello. Le gambe sono piene di ferite e di cicatrici. Ai piedi porta delle scarpe, un tempo bianche, sporche di fango e umide. Mi sorride e poi comincia a ghignare. Forte, sempre più forte. Cammina verso di me e io non riesco a muovermi. Quei suoi occhi mi tengono incollato per terra. Mi porge la mano, o meglio il coltello. Mi sussurra qualcosa nell’orecchio. Un lieve fruscio caldo passa attraverso il timpano e raggiunge tutto il mio corpo. Tutto. Riempie le vene, le arterie, entra nei miei polmoni, pulsa nel mio sangue, raggiunge il mio cervello. La sua voce risuona nella mia testa, sembra un sussurro, un continuo lamento.
Sento dei passi, qualcuno sta venendomi incontro. Sono pronto a tutto, non ho paura di nulla. Mi accorgo di disporre di una forza indistruttibile, di essere schiavo di una mia ossessione omicida. Non ho nulla in mano, ma qualcuno con me.
Una donna. Una donna che fa l’infermiera, che squarta la gente, che sgozza le teste. Ama il sangue, l’umido, l’oscuro, il tetro, la desolazione. Mi fa sempre compagnia.
Il sangue. E la morte.
I miei genitori stanno salendo le scale. Sono felici, li sento. Parlano tra loro, scambiandosi promesse che mai manterranno e progettando cose fuori dal normale. Mi chiamano, ma non rispondo. Voglio che sentano il mio respiro, che capiscano dove sono, che mi raggiungano.
Mi prudono gli occhi, sembra di essermi appena svegliato da un lungo sonno. Me li stropiccio e appena smetto del sangue cola dalle mie mani, come una sorgente di alta montagna di acqua pura.
Per me non c’è acqua, ho sete di sangue. Il cuore batte. Bum. Bum.
I passi dei miei genitori si avvicinano. Apro gli occhi che adesso non
sanguinano più. Perché sono nuovi. E sono azzurri come un cielo sereno. Mi chiamano. “Stefano!” e mi corrono incontro, scrollandomi e ripetendo il mio nome a tonalità sempre più alta. Apro gli occhi davanti a loro. Guardo i loro occhi. Occhi negli occhi. Sguardi negli sguardi. Loro aprono la bocca e cacciano un urlo. Un urlo profondo, acuto, che sa di morte e odora di carne.
Sono per terra in fin di vita. Guardo papà e ricordo di quando da piccolo mi chiudeva sempre in camera mia a chiave. Che non mi comprava mai quello che non volevo. Che non mi parlava da vero padre. Lo prendo per i capelli e lo alzo.
Tiro la testa verso l’alto. Sempre più in alto. Improvvisamente la donna che c’è dentro di me mi suggerisce qualcosa. Annuisco in silenzio e prendo dalla mia tasca un coltello. Gli taglio la testa e la butto più in là, nel buio. Nell’oscurità.
Poi guardo mamma. Mi ha sempre trattato da figlio, mi ha partorito con molto dolore, mi ha sempre amato. Mi guarda, piange, mi supplica, dice che mi vuol bene. Chiede aiuto e le lacrime scorrono sul suo viso. Azzurre e splendenti.
Ed io non provo assolutamente nulla.
Stefano Aiello febbraio 2007
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