Raccontino di mezzanotte
5 maggio 1912
Quell’invito scritto di mio padre che mi convocava per un incontro m’era parso assai strano, fin dall’inizio. Un suo biglietto da visita su cui riconoscevo la sua inconfondibile calligrafia, con quegli eleganti svolazzi, e quel suo modo particolare, unico direi, di riuscire a trattare i chiari e gli scuri che l’inchiostro dona passando dalla penna d’oca alla carta in modo da far risaltare, nel giusto modo, ogni lettera.
Mio padre. Erano quasi dodici anni che non lo vedevo né che avevo sue notizie. Me lo ricordo bene il giorno in cui partì, disse, per un viaggio di affari. Io ero poco più di un bimbetto d’otto anni, mia sorella, ancora più piccina non arrivava ai sei, Enrico, l’ultimo nato, aveva appena iniziato a camminare.
Per quanto mia madre e la zia Clara cercassero di mostrarsi normali agli occhi di noi bambini avevo scorto sui loro volti un dolore particolare che quello di mamma, imparai poi a razionalizzare, si materializzava con una vena azzurrina che le si mostrava, appena appena, sulla fronte, sopra l’occhio sinistro ed un’altra che le si gonfiava un poco, mostrando il battere accelerato del cuore, lungo il collo.
Povera mamma, e povera anche zia Clara. Si trovarono di fatto a sostenere il fardello di tutta una famiglia. Non parlo di quello economico, no, per questo mio padre provvedeva più che generosamente inviando denari in grado di assicurarci se non il lusso, di certo una, notevole agiatezza. No, penso agli affanni, al dovere di educare noi tre, bambini, e d’esserci ad un tempo padre e madre, anzi, alle volte più padre che madre, per non farci sentire troppo la mancanza d’una figura maschile, in famiglia.
Forse quel loro sforzo particolare venne frustrato quando mia sorella, appena quindicenne, dichiarò di voler entrare in convento e prendere i voti.
Forse, pensarono le due donne, per rinfrancare la sfiducia che aveva accumulato verso gli uomini, i maschi, per l’abbandono del padre.
Forse fu anche per questo, per questa delusione che zia Clara, ne morì, poco dopo aver appreso la notizia, e dopo aver tentato in tutti i modi, e senza successo, di dissuadere la nipote.
Non era anticlericale zia Clara, tutt’altro. Pensava però che la scelta della nipote non fosse quella di una vera vocazione ma, piuttosto, la fuga da un mondo che la spaventava. Come se si fosse trovata dentro ad una vita troppo pesante. Si sentiva colpevole, forse, zia Clara, di non aver saputo dare un esempio migliore.
La mamma continuò a dedicarsi ad Enrico ed io partii per la Capitale dove iniziai una carriera di scrittore e giornalista alquanto discutibile: piccoli pezzi di cronaca che alterno alla stesura dei necrologi, in quanto allo scrittore poi… Novelle, qualche novella l’ho scritta, una sono addirittura riuscito ad averla pubblicata su di un piccolo giornale letterario…
Mio padre invece, lui si è un grande scrittore. Ho letto tutti i suoi libri, perlopiù resoconti di viaggi in terre lontane, misteriose, di avventure incredibili e di donne.
Ah le donne. Lui si che le ha davvero conosciute. La mamma, penso, ancora lo ami, nonostante l’abbia abbandonata da tanto tempo.
Io, le donne le conosco poco, non perché non mi piacciano, tutt’altro… Sono io, a quanto pare, che non piaccio a loro, per questo la mia esperienza si ferma a quelle ad ore che per pochi soldi ti fanno sognare d’essere un principe, uno sceicco, e ti giurano un amore eterno, che finisce poi, inevitabilmente, allo scadere del turno, e allora ti alzi, le saluti, e te ne vai, ma sai che appena ti sarà possibile sarai lì di nuovo, perché il bordello, ormai ti è familiare come la tua casa.
Mio padre no, lui ha un dono dentro le dita. Dalla sua penna escono, svolazzanti lettere che compongono parole che unite fra di loro compongono storie incredibili. Ha il mondo nelle dita, mio padre!
Di lui la mamma dice che, oltretutto, il suo sguardo sa portarti al centro del mondo. Me lo ha raccontato, qualche volta, di come si sentiva lei quando lui, entrando in una sala piena di persone, l’avvicinò guardandola fissa come fosse l’unica presenza umana di tutto il palazzo, di tutta la terra, forse. E lei si sentì penetrare da quello sguardo, si sentì scavare ed alzare sino in cielo, e sentì in quel momento, che nessun altro uomo avrebbe saputo guardarla così, né, guardandola, avrebbe potuto penetrarla più a fondo.
Fu sua, dopo quello sguardo.
La pendola dal muro batté le ore: undici e mezza. L’appuntamento era per mezzanotte. Uno strano orario per un incontro tra padre e figlio. Ma dopo dodici anni la voglia di rivederlo era così forte che lo avrei incontrato non solo a mezzanotte, ma all’una, alle quattro, a mezzogiorno…a qualsiasi ora.
Il posto non era lontano dalla locanda dove alloggiavo. Invero mi sembrò insolito essere atteso nel cimitero vicino alla Chiesa Vecchia della Città. Ma mio padre però è un grande scrittore, un uomo originale, – “forse – pensavo – dopo tanto tempo mi vuol rivedere in un luogo un po’ appartato, lontano da occhi indiscreti che lo possano riconoscere e disturbarci. Chissà quante cose avremo da dirci!” – di certo io di domande ne avevo molte, pronte, da porgergli; dodici anni di tempo ho avuto per prepararmele. Ma non c’era animosità in me, piuttosto euforia.
Arrivai al cimitero della Chiesa Vecchia che mancavano ancora cinque minuti alle dodici, attesi allora prima di entrare, vicino cancello socchiuso.
Lì il custode spesso era ubriaco già di mezzo pomeriggio ed era normale, dunque, per lui, andarsene a dormire senza chiudere il cancello, – “tanto – aveva detto più di una volta al Parroco che lo aveva rimproverato per quella sua negligenza – da qui non scappa nessuno!” –
Il campanile iniziò a battere dodici colpi. Il mio cuore aumentò la frequenza dei battiti, per l’emozione. Stavo per incontrare mio padre, dopo dodici anni.
Mi voltai a guardare verso la strada che portava al cimitero pensando di scorgerlo mentre arrivava – “Lo saprò riconoscere?”- pensavo -“Ma certo! Dopo tutto è Mio Padre!” –
D’un tratto mi sentii come osservato alle spalle, mi girai di scatto e vidi la figura di un uomo che mi guardava, proprio lì, in mezzo alle tombe. -“E’ lui!”- pensai -“era lì che mi aspettava e, certamente, mi stava osservando da quando ero arrivato, chissà se ha riconosciuto nel mio modo di fare, di atteggiarmi, qualche cosa in cui gli somiglio…?”- quanti pensieri mi si affollarono in mente, tutti assieme, e che eccitazione! Affrettai il passo, poi mi misi a correre con decisione verso mio padre -“Papà!”- gridai mentre mi avvicinavo correndo.
L’uomo non fece un gesto, non aprì bocca, non emise suono.
Ormai gli ero vicinissimo: -“Papà!”- esclamai di nuovo. Mi fermai a pochi passi da lui. Lo guardai in volto. Perché non mi parlava? Perché non accennava ad un gesto d’affetto? Ad un abbraccio?
-“Papà!”- esclamai di nuovo, con un tono un poco turbato.
Feci gli ultimi passi e mi gettai fra le sue braccia di slancio, tanto di slancio che inciampai cadendo a terra.
Mi girai, mia padre era sparito. Guardai attorno, non poteva essere fuggito di nuovo! Non poteva in così poco tempo! Non poteva in quel momento, non dopo dodici anni, non senza avermi parlato almeno una volta!
Mi guardai attorno …. niente. Fu in quel momento che mi girai verso la tomba sulla quale avevo inciampato. C’era il nome di mio padre, inciso, nel marmo “John W. Talbot – Scrittore” e due date, nato il 14 febbraio 1871 morto il 5 maggio 1911″
Mio padre era morto un anno prima e quella notte, aveva scelto di darmi quello strano appuntamento per potermelo comunicare.
Promos Maggio 2005
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