L’Ombra

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Era una tranquilla giornata di maggio, quella. Il raggi del sole aggredivano l’imponente mole del castello dei Conti Guidi, che racchiude in sé il Museo Leonardiano, insieme con la sua torre che si scaglia maestosa contro il cielo come orgoglioso simbolo della città. Ma ben presto il Grande Terrore avrebbe deciso di uscire allo scoperto. Un Grande Terrore, viscido e ripugnante, alla stregua dei più spaventosi demoni annidati nella mente di Howard Phillips Lovecraft, sarebbe scaturito con rabbia dalle viscere della terra. Ed avrebbe contaminato la valle con un ombra così gelida da lenire la forza dell’astro che dà luce e calore.
La città di Vinci quel giorno era gremita di ignari turisti. Essi, in gran parte tedeschi ed inglesi, si ammassavano sulle scalinate che conducono all’ingresso del Museo come formiche su una briciola di pane. Alessandro stava attraversando con fatica quello sciame umano; i loro continui schiamazzi gli stavano martoriando il cervello. Quando uscì, era sfinito. Aveva al passivo una gomitata in uno zigomo ed un’altra allo stomaco.
Dentro la vettura lo attendeva la sua bella Monica. Quando lui aprì la portiera, ella fece esplodere il palloncino creato col suo chewing-gum.
“Abbiamo fatto tanta fatica per niente! Oggi non c’è alla biglietteria”
“E chi c’è, allora?” sospirò Monica. La ragazza, dal fisico statuario, aveva i capelli rossi ed indossava un ammaliante decolleté color fucsia. Vantava inoltre una forte somiglianza con l’attrice Julianne Moore. Erano in molti a voltarsi per guardarla. Alessandro l’aveva conosciuta in una delle tante sale da ballo disseminate nella città di Firenze.
“Un altro, che non conosco. Credo che a questo punto dovremmo cercarlo a casa sua”
Delusione, già. Frustrazione, per meglio dire. Chilometri di viaggio per fallire il bersaglio. Ma succede anche ai migliori.

Il bersaglio in quel momento se ne stava là, in casa, comodamente sdraiato sul divano a guardare la tv. Con un morbido cuscino a cui era stato affidato il compito di sorreggergli la testa. Un bersaglio dall’età di sessantacinque anni. Da quel giorno era in pensione, e si godeva finalmente il tanto sospirato riposo. L’uomo non accolse certo con entusiasmo lo squillo del campanello. Si alzò in piedi sbuffando e si affrettò ad attraversare il lungo corridoio.
“Hai deciso di impiegare la tua pensione standotene chiuso in casa a guardare la televisione?” gli chiese Alessandro.
“Me lo merito. Ho lavorato una vita in quel maledetto castello”
I due si abbracciarono. Erano padre e figlio. Non si vedevano da molto, moltissimo tempo. Ma il loro era un abbraccio freddo, come le strette di mano fra Sharon ed Arafat. Poco più tardi, la quadrata tavola di mogano aveva l’orgoglio di ospitare i nuovi arrivati. La futura generazione, i nuovi ramoscelli del grande e rigoglioso albero della famiglia. La cucina era molto ampia. Appesa alla parete se ne stava una fedele riproduzione de “La persistenza della memoria” di Salvador Dalì, e poco più avanti una simpatica targhetta in materiale sintetico con la scritta

IN QUESTA CASA SONO TUTTI NERAZZURRI
ANCHE IL GATTO

“Gli hai fatto vedere il Museo Leonardiano?” chiese il padre; Alessandro tacque.
“Lo farà più tardi, adesso c’è troppa gente” mugugnò Monica.
L’uomo si grattò la barba incolta, poi fece sparire in un attimo il contenuto del bicchiere. Le sue guance erano leggermente arrossate: adorava il vino. Ed anche le belle gambe tornite della nuova fiamma di suo figlio. La stava puntando come un leone della savana punta una gazzella, da quando erano arrivati. Sapeva che si conoscevano da poco tempo. Chissà quale tipo di progetti avevano in mente per il loro futuro. Un sorriso sornione comparve a quel punto sul suo volto:
“Quando vi sposate?” chiese conficcando con forza lo stuzzicadenti nella fessura che gli separava i due incisivi superiori. La domanda era d’obbligo, dal momento che il suo adorato e unico figlioletto aveva oltrepassato ormai da tempo la trentina.
“Quando lei troverà lavoro” ci tenne a precisare Alessandro con un sospiro amaro.
“Se troverò lavoro” rispose Monica con un sorriso quasi idiota.
Se? Lo sguardo del vecchio ricadde in quel momento sulla minigonna della ragazza. Poi scivolò ancora più giù, sempre più giù, a scrutare ed a giudicare con astuta perfidia i sandali col tacco, lo smalto rosso alle unghie dei piedi e i due graziosi tatuaggi a forma di farfalla su entrambe le caviglie. Mandala a fare la puttana, pensò. Le continue lamentele dei giovani gli facevano andare il sangue agli occhi; lui che da adolescente aveva lavorato la terra sotto il sole cocente. Era sempre stato un tipo lungimirante, e gli era bastata una semplice occhiata per capire due cose di quella ragazza: che era una scansafatiche e che la castità non era certo il suo credo. Però, alfine, preferì tenere questi pensieri per sé. Non aveva certo intenzione d’irritare Alessandro, c’era il rischio di incrinare ulteriormente il loro già deteriorato rapporto.

In quel momento, a pochi chilometri da Vinci, una ditta stava effettuando scavi lungo il pendio di una collina. Ripetute frane e smottamenti che ostruivano spesso con fango e detriti la principale via d’accesso alla città, avevano convinto il sindaco a prendere urgenti provvedimenti. Un unicum architettonico in cemento avrebbe archiviato definitivamente la questione.
Dentro la grande buca scavata dal caterpillar se ne stavano due operai. Il primo si scolava una lattina di birra, il secondo si dilettava a sfogliare un giornaletto porno. Erano in pausa. Il primo aveva il fisico macilento. Per quanto riguarda il secondo, una disfunzione alla tiroide aveva reso rotonde le forme del corpo. Battibeccavano spesso fra loro. Un divertente remake di Stanlio ed Ollio.
“Dove hai preso quella porcheria?” brontolò il primo riferendosi ovviamente al giornaletto;
“L’ho comprato ieri ,comunque, non preoccuparti, lo farò sparire presto”
Il secondo dette uno sguardo all’orologio ed emise un amaro sospiro.
“Fine della pausa” apostrofò il collega.
Ripresero senza molto entusiasmo a lavorare. Ad un tratto lo smilzo alzò la testa e notò che il suo compare si era immobilizzato come una statua; se ne stava lì fermo immobile sopra l’esile pontile di legno che costeggiava il fiume di fango che scorreva verso le profondità della Terra. Un acheronte, se così si poteva chiamare. L’operaio aveva gli occhi spalancati come un gufo e un’espressione inebetita.
“Ehi, che diavolo ti succede? Hai visto un fantasma, per caso?” gli urlò.
Il dito del grassone puntò la melma:
“C’è…c’è qualcosa, laggiù!” balbettò l’operaio.
“Cosa?”
“Ho visto qualcosa uscire dal fango…sembravano due antenne. Sono sbucate in quel punto e poi sono sprofondate giù”
Due antenne? Questa poi. Lo smilzo a quel punto perse la pazienza:
“Ma che dici, sei ubriaco?” protestò. Quello non era certamente né il luogo né il momento adatto per improvvisare uno scherzo beota. In un attimo il suo sguardo si distolse da quello del suo collega per poter dirigersi verso quell’Acheronte melmoso. Ma non notò niente di anomalo. Soltanto acqua marrone. Chissà cosa mai poteva avere visto, quell’imbecille. Si affrettò a raggiungerlo sul pontile.
“Andiamo, stupido… rimettiamoci al lavoro, che è meglio” lo apostrofò.
TUMP!
Un rumore improvviso.
“Che succede? Cosa è stato?” esclamò il grassone spaventato.
TUMP!
L’esile ponticello barcollò paurosamente.
“Il terremoto” gridò lo smilzo.
Il legno cedette. Gli operai precipitarono nel fango.

Monica osservava divertita le mani del suo uomo agitarsi sul proprio corpo. La luce del sole che filtrava dalle persiane illuminava le sue lentiggini e la sua chioma rosso rame. Al termine dell’amplesso, i due ricaddero uno accanto all’altro, madidi di sudore, come due pugili caduti simultaneamente al tappeto. Alessandro si addormentò con la testa appoggiata sul sinuoso corpo della ragazza; un sottile raggio di luce proveniente dalla tapparella semiaccostata, colpendo il brillantino maliziosamente incuneato nel di lei ombelico, si scomponeva nei colori dell’arcobaleno conferendo alla stanza un’atmosfera surreale.
TUMP!
Il rumore li destò entrambi. L’orologio sulla parete segnava le tre esatte del pomeriggio.
TUMP!
Cosa era stato?
Proveniva dalla cantina. Qualcosa aveva sfondato il muro come fosse fatto di cartapesta ed entrato nella stanza. Ad una prima occhiata, pareva avere l’aspetto di una lumaca. Già, lumaca semplice. O se preferite, Limax agrestis, considerando il suo nome scientifico. Creature che vengono così illustrate nelle enciclopedie:
Appartenenti alla famiglia dei Molluschi Gasteropodi terrestri, dell’ordine dei polmonati. Hanno un corpo allungato, viscido, rugoso. Sul capo vi sono quattro tentacoli retrattili, dei quali i due più lunghi portano gli occhi alle loro estremità. Abitualmente, non superano i settanta millimetri di lunghezza.
Una chiarezza cristallina. Fa quasi paura, vero? Eppure c’era qualcosa che non quadrava in tutta quella faccenda: Non superano i settanta millimetri. Ma in quel caso non era così.
Quando la creatura li vide arrivare, irrigidì il suo corpo gelatinoso e poi alzò la testa. Piegò i quattro tentacoli verso il basso, quasi come a voler chiedere scusa per quella improvvisa intrusione. Poi si mise a fissare i due giovani nudi. Li fissava con gli occhi incuriositi di un bambino che osserva una farfalla appena posata su un candido fiore. Voleva studiarli. Come se non avesse mai visto un essere umano. Eppure ne aveva già divorati due, poco prima.
Per un attimo, un diabolico incantesimo parve avere tramutato in statue i tre presenti nella stanza. Poi, d’improvviso…la rivoltante creatura lattescente si mosse. Spalancò la bocca, mostrando così ad Alessandro e Monica una schiera di denti acuminati. Quelli della parte superiore superavano in lunghezza quelli della parte inferiore, anche se di poco. Ma la paura era così forte in quel momento che la mente di Monica si rifiutò di registrare quel particolare. Senza dubbio se Linneo o Lamarck avessero visto quell’essere, sarebbero rimasti ammutoliti. Denti? In una bocca di lumaca? Pareva impossibile, ma era proprio così. Potenza dell’orribile mutazione genetica.
Dopo qualche attimo di esitazione, il Grande Terrore si scagliò contro i due amanti.

L’enorme lumaca, dopo avere avuto come antipasto i due operai e come succulento pranzo Alessandro e Monica, adesso si stava aggirando per la città in cerca di un buon dessert.
I pochi, assonnati individui che scaldavano le bianche sedie di plastica dei bar non avevano la benché minima idea di cosa stesse accadendo là fuori. Ognuno di loro era immerso nei pensieri delle loro vite quotidiane, banali ed immutabili. Nessuno immaginava che una lumaca dalle dimensioni di un rinoceronte stesse attraversando il paese, lasciandosi dietro il suo passaggio una vomitevole scia molliccia e una moltitudine di cadaveri dilaniati. Fu un agente di polizia ad irrompere nel bar e a dare loro l’allarme.

In quel preciso istante, in una fattoria immersa nella campagna vinciana, se ne stava una ragazzina prodigio. La piccola, di nome Lorena, era diversa dalle altre coetanee. Esse erano cresciute giocando con le bambole, lei leggendo Agatha Christie e Michael Crichton. Giorni addietro aveva scoperto in un vecchio mobile delle misteriose carte, e si era messa in testa di decifrarle. Continuava a lavorare su quei documenti con impressionante stakanovismo. Uno spasmo febbrile l’attraversava quando li leggeva. Le scritte erano al contrario, quindi per decifrarle faceva scorrere un minuscolo specchio che teneva saldo nella sua mano destra. Quelle carte racchiudevano un segreto.
Nessuno nella famiglia era dotato di una particolare intelligenza. Grandi lavoratori, questo è vero, ma persone sottoculturate. Nessuno era riuscito a diplomarsi o tanto meno a laurearsi. Ma ecco d’improvviso irrompere lei, Lorena, a rimescolare le carte del destino. Una figlia inattesa (sua madre era convinta di essere in menopausa). Per tutti, quelle carte erano soltanto dei semplici scarabocchi fatti da qualche perditempo. Ma per lei no, aveva capito tutto. Erano opera del genio.
In quel momento nel cortile della casa giocava a pallone il suo dolce cuginetto. Lottava e cozzava con una palla azzurra come il cielo. Una palla sicuramente troppo vivace per lui. Lottava e soccombeva, incespicando ripetutamente, ma non si arrendeva. Era deciso a proseguire la sua contesa contro quella diabolica sfera pulsante di energia a tal punto da sembrare viva. Un lungo filo di bava gli colava giù dalla bocca. Aveva perduto il ciuccio nell’erba almeno sette metri prima, ma sembrava non crucciarsi di ciò.
Lorena in quel momento riuscì a carpire il segreto racchiuso in quei documenti. Leonardo da Vinci aveva condotto uno studio su certi minerali che erano presenti nel terreno della zona. Egli si era accorto che le lumache del luogo erano più grandi del normale, anche se in limiti pur sempre accettabili. Ma esse tendevano, anno dopo anno, ad aumentare, seppur di pochissimo, di dimensioni. Inoltre cominciavano a cambiare abitudini alimentari, cibandosi anche di microscopici insetti. Il genio aveva perciò stabilito un nesso tra la composizione geologica del terreno e quelle mutazioni, in sé ancora piccole, ma che con il passar del tempo avrebbero potuto produrre conseguenze catastrofiche. Egli, con studi accurati, condotti da par suo, aveva calcolato che nel corso dei secoli una di queste trasformazioni ( mutazioni diremmo oggi ma che LUI aveva già intuito), avrebbe generato un mostro che avrebbe portato il terrore nella zona, seminando morte e distruzione. Ma poteva il Nostro accontentarsi di ciò? Poteva la sua mente illuminata lasciare soli i discendenti dei suoi concittadini, i futuri abitanti dell’amato territorio di Vinci, a combattere contro questa tragica eventualità? Mai. Quando affrontava un problema, il genio non desisteva sinché non trovava la soluzione. E così, giorno dopo giorno, notte dopo notte, si adoperò per svolgere il bandolo della matassa. Ed anche in questo caso riuscì a trovare il rimedio: un marchingegno che avrebbe imbrigliato e ucciso un’eventuale futura lumaca assassina. Già, anche se Leonardo, giovanissimo, aveva lasciato Vinci per andare a Firenze, allievo nella bottega del Verrocchio, e successivamente a Milano alla corte di Ludovico il Moro e aveva concluso, ormai vecchio, i suoi giorni nel castello di Amboise, in Francia, da tutti riverito e considerato un genio, non aveva certo dimenticato i luoghi della sua infanzia. Anzi, continuava a provare per essi una struggente nostalgia, tale che era ben conscio che là un giorno sarebbe tornato il suo spirito.
Era già pomeriggio; al calore e alla vivida luce del sole di mezzogiorno che riscalda la pelle e rende forte e sicuro l’animo, era subentrata una luce più pallida. Un calore più debole che produce una flebile sensazione d’insicurezza. Un recondito timore per l’avvicinarsi della notte.
Fu allora che il Grande Terrore decise di uscire dalla città , infastidito dal frastuono prodotto dalle automobili e dalle urla degli abitanti. Iniziò così a trascinarsi in aperta campagna. A dispetto di coloro che additano le lumache come esempio proverbiale di lentezza, quella era in grado di spostarsi abbastanza velocemente. In un attimo sparì, inghiottita dalla vegetazione.
Il cuginetto di Lorena giocava tranquillo in giardino. La nonna si ricordò d’improvviso che il declivio della collina terminava in una recinzione. Con un abisso al di là di essa. Il piccolo certamente non avrebbe mai potuto oltrepassare la staccionata da solo. Ma se invece ci fosse riuscito? Lasciò allora ricadere gli uncini da maglia sul morbido cuscino su cui si era adagiata e uscì fuori.
E fu allora che vide…
Un essere viscido. Lattescente. Un incubo scaturito dai peggiori sogni si era materializzato, pronto a seminare morte e sgomento. Viaggiava a grande velocità contro il bambino, con l’intento di farne la ciliegina sulla torta. Lo inghiottì in un attimo. A quel punto la nonna iniziò a correre trafelata verso la fattoria, urlando ripetutamente il nome della sua adorata nipotina. Lorena la udì, uscì e vide la scena. In quel momento capì che le previsioni di Leonardo da Vinci erano esatte. Gridò alla nonna di rifugiarsi nel granaio. Era là che era nascosto il marchingegno.
La parete purtroppo era meno solida di quanto si poteva immaginare. La terrificante entità la sfondò come se nulla fosse. Quando la nonna vide entrare l’enorme creatura, si accovacciò in un angolo terrorizzata e con le ginocchia piegate contro il petto, in posizione di palla. Iniziò a pregare con quanto fiato aveva in corpo. Quando capì che era lei che voleva, iniziò a correre. Inciampò. Riuscì a perdere le scarpe. Riprese la sua corsa per la vita. La lumaca l’afferrò coi denti ed iniziò a muoverla per l’aria. Le urla che emetteva la nonna non erano troppo dissimili da quelle di una cornacchia. Il Grande Terrore la muoveva facendole cozzare ripetutamente la testa contro le pareti del granaio, lasciandovi impresse scie di sangue che facevano pensare ad una composizione di Kandinskij. Quando capì di averla uccisa, la depositò sul suolo invaso dalla paglia e dette così inizio al suo macabro banchetto. La bestia muoveva con ritmo instancabile quelle sue mandibole grondanti di liquido rosso. Aveva molta fame. Ma qualcosa la fece improvvisamente desistere dalla sua scellerata impresa.
Un grido.
Era uscito dalla bocca di Lorena. Ma quello non era un grido di disperazione, bensì di rabbia. La ragazzina a quel punto rimase immobile, senza batter ciglio, poi fece qualche passo in avanti. Il messaggio era inequivocabile: aveva fatto capire che non aveva paura di lei. I pedoni degli scacchi non hanno molto potere, vero, ma quando raggiungono l’altro lato della scacchiera, si possono tramutare anche in Regina.
Eccoli, finalmente di fronte, i due protagonisti di questa storia. La Bella contro la Bestia. Davide contro Golia. Sì, certo, ma alla fine fu Davide a spuntarla. Lorena non aveva una fionda, ma sapeva quello che doveva fare. E doveva farlo in fretta.
Alla Limax non piacque affatto quel gesto di sfida: forse aveva speso troppo tempo dietro a quella vecchiaccia dall’asprigno sapore. Spalancò la bocca e fece per scagliarsi tutta quanta contro l’esile, innocente e profumata Lorena. Ella iniziò a correre. Una corsa contro il tempo.
Pensò alla nonna.
Pensò a se stessa.
O la vittoria o la morte.
Riuscì a raggiungere un angolo del granaio e premette con forza un mattone oscillante. A quel punto, come per magia, il pavimento si aprì in due.
Una trappola, un meccanismo costruito dall’astutissimo Leonardo almeno mezzo millennio prima. La lumaca vi cadde dentro.
In fondo alla buca vi erano tante lame di metallo. Tante quante le margherite nel giardino. Se ne stavano là sotto da tempo immemorabile. Attendevano da secoli nel buio. Attendevano che qualcuno un giorno mostrasse nuovamente loro la luce, come i tesori di una piramide. Una trappola letale, perfetta, degna del genio di Leonardo. Degna di essere immortalata dalla penna di Edgar Allan Poe.
A quel punto Lorena fece qualche passo in avanti. Si chinò ad osservare la scena, toccandosi le ginocchia con le mani, e stando sempre attenta a non sporgersi troppo in là. Osservava divertita quell’obbrobrio lattescente dimenarsi ripetutamente come un pesce preso all’amo, scosso da brividi convulsi causati dal dolore. Ad un tratto la bestia si irrigidì e smise di muoversi. Finalmente il Grande Terrore aveva cessato di esistere, vinto da quei lunghi e silenziosi assassini d’acciaio. Proprio come nelle previsioni di Leonardo.
Le labbra di Lorena a quel punto si schiusero partorendo un sorriso diabolico. Il sorriso di una ragazzina che aveva già in sé l’astuzia di una donna adulta.
Requiescat in pace, pensò facendogli un ironico cenno di saluto con la mano.

Le auto della polizia e dei carabinieri si stavano dirigendo verso la fattoria a sirene spiegate. Non è difficile rintracciare una lumaca: basta seguirne la scia. Ovvio. Lorena stava andando loro incontro. Camminava con aria trionfante nel sentiero in mezzo agli ulivi. Ulivi che se ne stavano tutt’intorno alla fattoria come sinistre sentinelle. Il vento faceva agitare come serpenti i suoi riccioli corvini. All’orizzonte, intanto, il cielo era incendiato dai colori del tramonto.
Sull’intera valle, aleggiava un ombra. L’ombra del genio. Molti credono alla reincarnazione, molti altri invece no. Ma era proprio quello che stava accadendo in quel momento.
Leonardo da Vinci riviveva in Lorena.

Diego Balestri settembre 2004

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