Menù Turistico: Lit 20.000 A Persona

Racconti


Ho aperto questo ristorante da poco meno di tre anni  e da allora, lo giuro, nessuno ha mai pensato di lamentarsi. A torto o a ragione.
La mia cucina è pura arte.

Guardo la spaziosa sala dalla finestra servivivande della cucina, puntando i gomiti sulla superficie di finto marmo e sorreggendomi la testa con i palmi delle mani unti d’olio. Sorrido compiacente al vecchio Paride (non che vecchio lo sia davvero, ma in un locale in cui doppi  in età gli altri tuoi colleghi, sei molto vicino all’esserlo) che porta le due copie d’ordinanza del menù fiabescamente serigrafato al tavolo otto. Gli sorrido e lascio intendere che probabilmente lui più di me rappresenta l’anima di questo posto. E’ fedele capocameriere dal giorno dell’apertura, compunto inserzionista del piccolo giornale locale
cameriere di provata esperienza, offresi
a cui attinsi personale pochi mesi prima di inaugurare il mio Passo d’Uomo, locale vagamente retrò a due passi dal lungomare, buona cucina squisitamente casalinga e servizio impeccabile. Dicasi Paride, appunto.
Degli altri due ragazzotti assunti all’inizio dell’estate (come ogni anno del resto), non posso certo lamentarmi: sanno che il loro posto è lì dentro fino a metà settembre circa, poi andranno via con i turisti. L’inverno non è granché per una cittadina che ha deciso di scavare le sue fondamenta sul friabile terreno della bellezza da cartolina, offrendo così la schiena ai capricci umorali del tempo e alle risorse economiche dei sempre vari turisti stranieri. Otto mesi l’anno Paride è dunque la mia unica compagnia, sempre eccellente anche con l’unico cliente della serata affogato al tavolo più distante dalla cucina “per poter vedere il mare” in una notte nera e uggiosa di fine novembre.  Ha sempre un sorriso nascosto in fondo al cuore da appiccicarsi sulle labbra anche per i due amanti di vecchia data che spingono la porta d’ingresso alle undici e mezza di una sera di fine gennaio, quando ormai io mi accingo a spegnere i fornelli della cucina e lui sogna di scivolare fuori dal suo impassibile abito da perfetto milord. Ha una casa e una moglie che lo aspettano, questo è il poco che so. E’ un tipo riservato e non parla molto volentieri della sua vita privata, glielo si legge negli occhi. Né io lo sprono più di tanto, ognuno di noi ha sempre le sue buone ragioni, dopotutto.
Dicevo dei due nuovi camerieri, svolgono il loro dovere con mascherata insolenza (fortunatamente per loro mascherata), passano a ritirare il loro assegno ogni sabato sera con un finto grazie disegnato sulla bocca, e si presentano puntuali ogni mattina all’apertura del ristorante. Probabilmente sarebbero anche migliori se mettessero un po’ più di entusiasmo in questo lavoro che dà mille soddisfazioni, ma non gli viene richiesto: tutto quello che devono fare è comportarsi il più civilmente possibile anche con i clienti difficili, degnare di un mezzo sorriso anche chi ha dimostrato di non gradire particolarmente la serata e naturalmente, “muoversi incessantemente attraverso i tavoli, come uno squalo che deve continuare a pinneggiare per non affondare”.
Paride Docet.
E’ straordinario come riesca ad inculcare nella mente di quei giovani in misurate e mai pedanti parole, il Manuale del perfetto cameriere. E ancor più incredibile è notare come le nuove reclute pendano dalle sue labbra, da ogni suo gesto perfettamente sinuoso nel fluttuare tra i tavoli, di come abbandonino, nel momento stesso in cui mettono piede nel ristorante e fino a quando non ne escono a notte fonda, la loro spregiudicatezza e la spavalderia boccaccesca tipiche dei giovani per trasformarsi in perfetti cloni dell’originale Paride. E quando vanno via a fine stagione, i ringraziamenti sono tutti per lui, per me c’è solo una patetica stretta di mano e la promessa di ritornare, forse, l’anno seguente.
Ma a me va benissimo così.
Diamo a Cesare quel che è di Cesare.
E qualcuno che torna c’è stato veramente, due anni fa (per la verità c’è anche qualcuno che rimane dopo la stagione, ah ah, ma non è proprio quello che intendeva). Ha chiesto di poter riprendere il suo posto tra i tavoli ma ha lasciato dopo neanche due settimane: voleva poter passare in cucina e questo non è possibile.
Sono l’unico a poter trafficare tra i fornelli, sono un ottimo cuoco e me ne do atto. Riesco a svolgere i miei compiti con rassicurante velocità e precisione dunque non vedo la necessità di avere un aiutante. Conosco mille e più ricette succulente e quando e se un giorno deciderò di ritirarmi, sarà allora e solo allora che (forse) pescherò qualcuno a cui tramandare i miei segreti.

Paride si avvicina alla finestra e accenna un sorriso, passandomi il foglietto delle ordinazioni tra l’indice e il medio, le dita curate lunghe e affusolate, rosee di salute
croccanti come grissini.
Leggo dalla sua grafia appuntita:
TAVOLO OTTO
DUE LINGUINE AL RAGU’
DUE SCALOPPINE SUBLIMI
Magico Paride, ancora una volta è riuscito a convincere gli avventori sulla bontà della nostra carne. Abbiamo i secondi di pesce, ma solo per i casi più ostici. Generalmente nessuno resiste ad una buona portata di carne dopo che Paride ne ha delineato gli insuperabili disegni e se poi qualcuno proprio non ne vuol sentire parlare, beh, non sa cosa perde. D’altronde sull’insegna è scritto chiaramente
RISTORANTE “PASSO D’UOMO” – SPECIALITA’ CARNE
Un buon motivo ci sarà.

Torno in cucina e sprofondo nei caldi profumi che permeano l’aria, inspiro a fondo chiudendo gli occhi e mi inebrio la mente. Le pentole sul fuoco borbottano e sfumacchiano come vecchi burberi. Mi verso un buon bicchiere di rosso primitivo e ne fiuto i divini effluvi e ne assaporo la devastante corposità: mamma lo dice sempre che sono un buongustaio. Anche perché ritengo che non potrei altrimenti svolgere bene la mia professione. 
E ora mettiamoci all’opera…..

Se c’è una cosa che odio è l’alba.
No, un momento, non è propriamente esatto. Sarebbe meglio dire che odio trovarmi sveglio al sorgere del sole.
Nel 1675 sir Roland McWally, pioniere delle scienze psicomotorie, scosse le solide basi scientifiche di allora sostenendo che “in ognuno di noi è presente un’essenza vampiresca. Sopita in alcuni, più rimarcata in altri, a volte impercettibile tanto da risultare assente, ma pur sempre una costante del nostro IO, può risvegliarsi in qualsiasi momento e per i più disparati motivi con più o meno vigore, spesso degenerando in manifestazioni esteriori non sempre comprensibili…..” Vennero così spiegati i casi di epilessia, i grugniti notturni, il sonnambulismo, la villosità, l’ira e potremmo continuare di questo passo per una buona metà delle sintomatologie oggi più comuni. Il fatto che tali affermazioni venissero enunciate nel corso di un affollatissimo convegno medico alla presenza di luminari del tempo, non deve però aver intaccato minimamente la stima che in molti riponevano nelle sue indubbie doti se è vero che numerosi trattati dell’epoca riportano tali dichiarazioni. E il fatto che risalgano a più di tre secoli fa non ci autorizza a ritenerle false o irrazionali. Non tutte almeno. Se vogliamo è un po’ come per la presenza dell’altro sesso in ognuno di noi: viene fuori a poco a poco, prima timidamente poi con sempre maggior forza fino a prendere il sopravvento su quella che credevamo la nostra vera natura e ci forgia fino a creare una nuova persona. Avevo un amico felicemente sposato da ventidue anni e con due splendidi bambini che si sveglia una mattina e decide che è giunto il momento di dare un taglio al passato: e quando parlo di taglio intendo proprio un taglio netto. Si risposa con un suo vecchio compagno di liceo fino ad accorgersi dopo pochi mesi che forse la sua femminilità non è poi così predominante, che forse è stata una scelta affrettata e che ora è più difficile tornare indietro. Non lo vedo da ormai tre anni ma non mi stupirebbe più di tanto scoprirlo a dormire sul lettino dell’analista.
Ma questa è un’altra storia…..
Personalmente non avevo mai sentito parlare di sir McWally (dell’ipocondriaco dr McWally, come lo definivano i colleghi) e probabilmente avrei continuato a farlo, se non fosse stato per il mio primo lavoro.

Avevo ventisei anni allora e fare il fornaio era, se non la mia massima aspirazione, comunque un modo per rendermi abbastanza indipendente. Portavo in giro già centoventi dei miei centosessanta chili attuali e un po’ di moto mi avrebbe solo giovato. Così percorrevo i due chilometri che mi separavano dal panificio in sella ad una sgangherata mountain-bike della quale si intravedevano solo le ruote e il manubrio dalla massa strabordante che la ricopriva. Premetto che non ho mai considerato il mio peso come un problema, anche se più di una volta sono stato sul punto di cedere e ribellarmi ai soliti stronzi che facevano apprezzamenti da quattro soldi sul mio fisico: ma l’ ottimo autocontrollo che mi contraddistingue e il detto di mamma
ignorali e si roderanno dentro
devo ammettere che mi permettevano di andare avanti senza particolare difficoltà.
Tornando alla nostra storia, percorrevo quei due chilometri ogni mattina, alzandomi alle cinque meno un quarto ancora gonfio di sonno e pedalando per circa quindici minuti con l’eleganza di un giovane ippopotamo addormentato. Iniziai a lavorare a gennaio, quindi per i primi due mesi non feci particolarmente caso al sole che faceva capolino dietro alle colline, dal momento che quando accadeva mi trovavo già nelle cantine del panificio a trasportare avanti e indietro sacchi di farina e pane appena sfornato, facendo la spola tra le impastatrici e i depositi coibentati. Quando poi cominciavano ad arrivare i primi furgoni su cui caricare le pesanti ceste, il sole era ormai alto.
I primi problemi cominciarono a marzo: le giornate iniziavano ad allungarsi sensibilmente e la grande palla di fuoco a svegliarsi sempre prima. Quando uscivo di casa il buio avvolgeva ancora ogni cosa, era un buio pulito e totale con tutte le insegne e la maggior parte dei lampioni già spenti, ma bastavano pochi minuti perché ad est le stelle cominciassero ad essere divorate dalle prime avvisaglie di luce. Ogni secondo che passava era un piccolo astro che spariva, risucchiato dal sole ingordo: non era come avevo sempre immaginato, le stelle che gradatamente andavano perdendo la loro luminosità fino ad amalgamarsi al cielo. No, era più un plop repentino, mi sembrava quasi di sentirle schioccare schiacciate tra due enormi dita invisibili.
E il sole cresceva….
Confesso che i primi giorni mi fermavo estasiato ai piedi della collina ad ammirare lo spettacolo più bello ed antico del mondo. Poi però cominciarono le prime nausee mattutine, i primi giramenti di testa mentre osservavo il cielo colorarsi, i primi accenni di nervosismo con i colleghi di lavoro. Mi ci vollero tre mesi per capire che il passaggio dalla notte al giorno era per me interdetto. Cominciai a trovare fondatezza nelle parole di sir McWally e dopo diciotto mesi mi lasciai alle spalle il forno, l’aggressione a Manuel, il tizio del furgone, e il naso mangiucchiato alla titolare del panificio. A dar retta a loro mi licenziarono e se questo li rende felici, beh, non vedo perché dovrei affermare il contrario.
Tornai alla mia solita vita, non vedo più un’alba da allora e tutto è tornato come prima.
Quasi tutto.
Ho migliorato alcune delle mie abitudini alimentari e anche se non sono pienamente convinto che le due cose possano essere messe in relazione, ritengo di essermi privato per ventisei anni di qualcosa di assolutamente unico.

Paride mi fissa sorridendo a metà, appoggiato alla finestra del servivivande tamburellando con le dita sul vassoio cromato delle posate. Riemergo dai ricordi. Ricambio il suo sorriso e spengo il fuoco sotto il sugo. Condisco le linguine e riempio i piatti, due bei piatti fondi, glieli porgo con maestosità e lo guardo allontanarsi in direzione del tavolo otto: a volte penso che i suoi piedi non tocchino neppure il pavimento.
Rientro in cucina e ciondolo verso la porta tra i due scaffali ricolmi di barattoli e bottiglie d’ogni genere: la socchiudo appena e guardo giù dalle scale. E’ buio lì sotto, ma devo scendere. Devo preparare le mie scaloppine sublimi….

Una settimana fa Paride mi chiese a cosa mi servisse il gigantesco pentolone a ridosso della parete di mattoni rossi giù nello scantinato: eravamo scesi a prendere un paio di casse di vino bianco da mettere in fresco e credo fosse la prima volta che lo notava. Oppure era da tempo che desiderava chiedermelo ma non ne hai mai sentito realmente l’esigenza. Ero dentro fino alla cintola nel frigorifero a pozzetto in cui conserviamo i tagli di carne fresca quando me lo chiese. Trasalii e per poco non mi spaccai la testa contro il pesante sportello aperto per metà sopra di me. Mi voltai mordendomi il labbro per lenire il dolore che andava montando e osservai Paride da sopra la spalla che mi sorrideva a mezza bocca com’è solito fare da un po’ di tempo a questa  parte.
Sa tutto, fu la prima cosa che mi passò per la mente in quel momento.
Ma Paride si strinse nelle spalle e smorzò il sorriso.
Anche mia nonna ne aveva uno uguale, disse. Sono molto belli.
La seconda cosa fu di alzare istintivamente lo sguardo verso il grosso cucchiaio di legno sorretto dai due ganci semiarruginiti appena sopra il pentolone. Mi misi a farfugliare che era lì da prima che arrivassi io, ma stava bene, perché toglierlo?
La mia risposta lo fece annuire in maniera evidentemente poco convinta mentre risaliva le scale con un pesante cartone di bottiglie stretto contro il petto.

Le scaloppine sono pronte ed emanano un profumo da cardiopalmo: puccio appena il mignolo nel sughetto di cottura  e lo assaporo. Se tutti assaggiassero un piatto così, il mondo sarebbe sicuramente migliore, mi dico. Paride prende il vassoio che gli porgo e schiocca le labbra. Mi sorride ancora in quel suo modo enigmatico. Comincia a darmi un po’ sui nervi, se devo dire la verità.
E’ una serata poco movimentata, questa. Ci sono ancora solo tre tavoli occupati, una decina di clienti in tutto. In fondo siamo appena ai primi di giugno, le serate ancora abbastanza fresche. I turisti non cominceranno ad arrivare prima di due settimane. Sto preparando quattro antipasti per il tavolo due quando Paride si affaccia alla porta della cucina con fare indispettito.
C’è qualche problema con il tavolo otto, signor Bougon. Da quando ci conosciamo mi ha sempre dato del lei e questo mi esalta.
Problemi di che genere?
Credo si tratti delle scaloppine. Credo proprio.
Gli chiedo di occuparsi per un attimo degli antipasti ed esco in sala. Il tavolo otto è vicino alle vetrate accanto alla credenza di rovere, dall’altra parte della sala. E’ occupato da una coppia di mezza età, reddito medio alto, quartiere nord della città. Ho imparato a leggere i clienti con notevole facilità e questo mi aiuta non poco. E’ la prima volta che vengono nel mio locale.
Esordisco con un buonasera forse esageratamente chic e intreccio le mani dietro la schiena.
Credo che questo non sia stato richiesto, esordisce il marito. Mi mostra una scheggia trasparente non più grande di un unghia di mignolo tra i funghi e le vongole. La sollevo appena con la punta del coltello e la prendo delicatamente tra pollice ed indice.
Strabuzzo gli occhi.
E’ un unghia del mignolo…..
E’ una costina di sedano, concludo a denti stretti stirando un sorriso all’indirizzo del vecchio petulante. Ma se crede posso farle portare un altro piatto.
Mi risponde che no, grazie, non fa niente, si sarà sbagliato, l’aveva scambiata per….che stupido, per un’unghia. Sorride nervosamente, visibilmente imbarazzato.
Spalanco la bocca con finta meraviglia, poi mi allontano lentamente in direzione della cucina, farfugliando qualcosa, con la mano aperta e l’unghia sul palmo come una reliquia.
Non appena la porta a pendolo si richiude alle mie spalle affretto il passo verso lo scantinato. Paride mi segue palesemente sorpreso sollevando appena lo sguardo dagli antipasti guarniti finché non sparisco  dietro gli scaffali.
Il piccolo neon attaccato al soffitto ronza un paio di volte prima di illuminarsi debolmente: scendo le scale a rotta di collo (per quanto sia consentito alla mia mole) e spalanco il frigorifero della carne. L’odore pungente e dolce mi trapana le narici. Tiro fuori i cesti laccati che fungono da scomparti ordinatamente uno accanto all’altro. Infilo le dita nei fori del doppio fondo in alluminio, lo sollevo e lo poggio sui cesti per terra.
Il ronfare sommesso del frigorifero riempie la stanza.
Il corpo adagiato sul fondo mi scruta con insistenza.
Penso che dovrei almeno cavare gli occhi prima di metterceli dentro o qualche volta mi verrà un coccolone. Sono un tipo sensibile, io. Lo sfioro appena sulla guancia, poi mi piego in avanti e l’annuso: non è la prima volta, in questi apparecchi industriali la carne fresca si mantiene a lungo, ma non si sa mai. Comunque, l’odore è buono. Sbavo leggermente agli angoli della bocca, mi passo la lingua sulle labbra secche e gli sollevo l’avambraccio destro: a parte l’inevitabile rigor mortis risalente a tre sere prima, non ci sono altri segni di deterioramento, anche grazie alle due iniezioni di Oxynil. Faccio scivolare lo sguardo sulla mano carnosa  e da lì sulle dita, senza meravigliarmi più di tanto di trovare ciò che vedo. L’unghia del mignolo si è staccata e in qualche modo sarà finita tra i tagli prelevati dalle cosce e dalla schiena. Ecco un’altra cosa di cui mi dovrò ricordare la prossima volta: un’accurata manicure, ah, ah!
Lascio cadere abbastanza stizzito il braccio che torna al suo posto lungo il fianco e mi rimetto dritto, rimanendo per alcuni attimi a fissare il corpo supino perfettamente immobile. Avrà avuto non più di quarant’anni, maschio, bianco, perfettamente in carne. A occhio e croce una trentina di chili, puliti: poi c’è l’osso sacro ripieno di midollo, le interiora, fegato e polmoni (ottimi in pastella). Basterà per una settimana almeno, poi dovremo fare nuovo rifornimento. E’ il primo della stagione, questo. Era venuto da solo venerdì scorso e ha ordinato della carne (non ce n’era più, il rimanente cameriere dello scorso anno era  stato prima congelato e poi gettato ai cani, non c’è paragone con la roba fresca. In fondo avevamo aperto da pochi giorni, che diamine!) Comunque mi ha ricordato che al cliente non deve mai mancare niente e sono subito corso ai ripari. Gli ho servito degli affettati misti, poi l’ho chiamato in cucina. Il locale era vuoto e Paride era fuori a gettare la spazzatura. Il tizio aveva un accento strano, un rappresentante molto probabilmente. Mi ci sono voluti più di sette minuti per avere ragione di lui: l’ho fatto avvicinare ai fornelli indicandogli una piccola teglia e gli ho trapassato la nuca con lo spuntone del girarrosto con tanta violenza da farmi scricchiolare preoccupatamente i tendini del polso destro. Ha lanciato un miagolio sbiadito e un fiotto nero di sangue ed è crollato con la faccia sul piano di marmo del tagliere con un rumore di denti sgranati, agitando convulsamente le braccia e sparpagliando per tutta la cucina i coltelli, i recipienti delle salsine speciali, i tegami vuoti…..un vero ossesso. Non voleva saperne di smetterla, così ho dovuto colpirlo sulla schiena con il mattarello grosso, quello per la pastasfoglia. Ha emesso un piccolo sbuffo da mezzofondista e si è rialzato come se non volesse saperne affatto di lasciarsi andare: continuava a portarsi il braccio destro dietro la schiena aprendo e chiudendo ritmicamente la mano, cercando di afferrare il manico di legno dello spuntone che gli fuoriusciva per almeno cinque centimetri dalla bocca sdentata spalancata in un urlo silenzioso, ruotando su se stesso con la grazia di una consumata ballerina classica. I suoi erano solo deboli gorgoglii e aveva gli occhi strabuzzati come non avrei mai pensato fosse possibile. Per un breve attimo ho avuto paura che potessero schizzargli fuori dalle orbite e finire sul pavimento della cucina, rotolando in giro, magari finendo sotto la lavastoviglie. Ma sono tornato rapidamente in me e l’ho finito con la piccola mannaia che uso per disossare il pollo: gliel’ho piantata in mezzo alla faccia aprendogli il naso come una mela matura e finalmente è crollato con un tonfo sordo. Ho trascinato  il corpo fino alla porta dello scantinato,  sollevandolo da sotto le ascelle e facendo bene attenzione a non rigare il pavimento con i tacchi delle scarpe.
Quando ho alzato appena la testa e ho visto la testa di Paride che mi sogghignava da dietro l’oblò della porta a pendolo, ho strillato.
Mi sono distratto per un attimo e il cadavere mi è scivolato su un fianco, costringendomi ad accovacciarmi per trattenerlo e quando ho rialzato gli occhi Paride non c’era più.
Ho lasciato andare il corpo sul pavimento e mi sono precipitato nella sala vuota.
Nessuno.
Sono uscito sulla strada e una fresca manata di sabbia impalpabile mulinata dal vento mi ha graffiato le guance: il lungomare era affollatissimo, ma nessuna traccia di Paride nelle immediate vicinanze.
Sarà stato uno scherzo della tensione, ho concluso e sono rientrato in cucina.
La scia di sangue che dal piano di marmo portava al cadavere stava cominciando a rapprendersi, per cui ho affrettato le operazioni scendendo le scale all’indietro e più di una volta sono stato sul punto di perdere l’equilibrio e di rotolare giù e fracassarmi la schiena. L’ho messo a sedere contro il pentolone e sono risalito in cucina, ho dato una veloce ripulita intorno e ho aspettato che Paride tornasse e andasse a casa. Ho abbassato la saracinesca e sono ridisceso in cantina dove ho passato quasi tutta la notte a spellare il corpo (non avete idea di come sia coriacea la pelle umana),  a tagliare dalle cosce  e dalla schiena alcuni filetti che ho sigillato in sacchettini Cuki Gelo e sistemato nei cestelli laccati del frigorifero, pronti per il giorno dopo, aspettandomi da un momento all’altro che un ghigno di Paride si affacciasse  dalla porta in cima alle scale, ma non c’è stato. 
Erano quasi le quattro e mezza quando sono uscito dal ristorante, nel vento che cresceva e che mi portava musica di grilli lontani.

La serata continua in un via vai di gente che fa ben sperare: presto avrò bisogno di altra carne, ma questo non è un problema. Non i camerieri però, no, quelli mi servono ancora: a fine stagione forse, sempre che ingrassino almeno un po’. Quando la sera dopo aver chiuso ci sediamo al tavolo in cucina a  mangiare un boccone, loro si limitano a piluccare qui e là, come uccellini implumi. Dico io, ma è mai possibile con tutto questo ben di Dio?
A proposito, fra un paio di settimane c’è una sagra qui sul lungomare: ci saranno almeno un migliaio tra turisti e locali e il sindaco ha dato a me l’incarico di preparare il bollito con cui accompagnare il purè di fave star della serata. Ho accettato di cuore, sento sempre un groppo in gola quando posso rendermi utile a qualcosa. Una cinquantina di chili di carne basteranno, c’è un tizio paffutello al tavolo dodici che potrebbe anche fare al caso mio, potrei chiedere a Paride di trattenerlo con discrezione fino alla chiusura, oppure un paio di prostitute saranno sufficienti. Bollirli non sarà un problema, ho il pentolone di mamma giù in cantina.
Voi siete tutti invitati alla sagra, o al ristorante se preferite. Paride vi accoglierà con l’immancabile sorriso. Se non verrete vorrà dire che vi sarete persi qualcosa di esclusivo.
Ora che ci conosciamo, però, non ridete per favore se all’entrata del locale troverete affissi i manifesti colorati
MENU’ TURISTICO: lit 20.000 a PERSONA
Non sono io a dare così poco valore ad un essere umano, ma la concorrenza è una gran brutta bestia, sapete…

Simone Nuzzo

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