La Scuola
Autunno.
In autunno le mamme ci portano a giocare in campagna. I papà ci raggiungono con il loro pallone. Io e Francesco siamo compagni. Non ci assomigliamo affatto. Tanto per cominciare io sono una femmina e lui è un maschio. Lui è magro, io un po’ bassa. Lui viene sempre rasato, io ho imparato addirittura a farmi le trecce da sola. I nostri genitori abitano vicino, ad un tiro di schioppo. Durante le lezioni ci vediamo appena appena, ma quando arriva la ricreazione ci prende un affanno. Lui si muove ed io rimango ferma. A me Francesco piace con la sue erre moscia.
Io lo vorrei sano e scattante…
Ci rivediamo a casa sua. Le mamme ci lasciano soli. I miei genitori sono due operai. I suoi lo erano; adesso hanno aperto un negozio dove vendono tanti libri, tante penne, tante matite. Ci sono anche molti giocattoli, ma Francesco non li può toccare. Al massimo gli concedono di spolverare le mensole. Io mi annoierei, preferisco la polvere dei giardini. Vicino ci passa l’autostrada, i rombi sono continui. Non importa, che gli altri facciano pure…
Il giardino.
Al giardino è bello. Molti sono presi dai loro giochetti amorosi. Francesco li osserva, li fissa anche. Anche noi cresciamo e con noi il nervoso. Si accorgeranno! Facciano pure!! Francesco rimane incantato.
C’è n’è una che si siede sulla stessa panchina. Infila una babbuccia in testa, inforca gli occhiali e poi, ma uffa, ripete all’infinito gli stessi gesti: io non capisco cosa fa, ma è capace di continuare per delle ore. A me sembra che sia scema.
A dieci anni decisi di imparare ad andare in bici. Lo facevo per lui, i miei occhi erano tutti per lui. Ma la sua mamma verso le sei di sera veniva a prenderselo e se lo abbracciava. Lui mi guardava e godeva di tutte le attenzioni.
Come dicevo, diversi pomeriggi lo vado a trovare. Chiusi nella sua stanza smettiamo di parlare.
Io so che lo sa ma nulla traspare. In quei momenti il fuoco riscalda le mie guance ed io sono finalmente contenta.
Andai oltre.
Fu un banale incidente in cucina che permise di realizzare i miei sogni. Sua madre si ferì ad una mano. Il suo smarrimento rinfocolò la mia rincorsa. Mi gettai e bloccandola affondai la lama nel suo ventre tronfio, gonfio, molliccio. Il suo urlo straziante mi spinse ad aiutarla. Alzai la sua testa fulminandola per terra. Gli occhi opachi e dilatati si chiusero inghiottiti da una incomprensibile disperazione. Si estinse senza una parola. Io, nel frattempo, ben pulita e profumata, continuavo a parlare. Anche a vanvera, anche a sproposito. “Brutta troia…il tuo negozio era pieno di giocattoli, ma non hai mai regalato niente a tuo figlio”.
Uscì.
Inciampò sbattendo contro il porfido.
Mentre lei ansimava e gli altri accorrevano, il sangue scendeva copioso, formando una piccola pozzanghera. Aveva lasciato cadere un sacchetto di plastica. Ne era uscita una scatola di giochi che si era confusa subito con una melma fredda e vischiosa.
Roberto Estavio Febbraio 2006
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