La Ruota
Parte. Sale.
Panico mi assale. Io muto, corroso a 9 anni, e lui lo sa.
Si divertiva a togliere la vita, immondo dio pagano che pretende gli interessi dal tempo.
Ero incollato alla panchina, circondato da oceani di lamiere che mi ghermivano con falangi immobili, abituate alla vertigine e mai sazie d’amore.
L’ascesa continua per un po’. Stop. L’ascesa riprende per poco, prima dello stop traballa.
L’ascesa termina e io vomito. Muto. Guardavo la città e vomitavo sulle sue scarpe, le scarpe del re, ma lui rideva e mi scuoteva. Gli vomitai addosso tutte le mie paure, tutte le mie insinuazioni sulla sua vita cocciutamente indipendente, sulle tresche lunghe il tempo di una cicca, sulla sua sposa, bellissima ammaliatrice di bastardi, sgozzata per noia e per libidine.
Rise, e poi no. Mi diede un cazzotto, uno dei suoi, sullo stomaco. Risparmiò viso e mascella, non voleva spezzare la mia innocenza ma solo educarmi: era tranquillo, scaltro, anonimo. E malato.
Durante la discesa le lacrime si aggregarono al vomito fino a mondarlo: giunti a terra ero un perfetto, rispettoso pargolo truccato da scolaro. Mi sentivo libero, ma gli diede un po’ di grana.
Risalimmo.
Ogni tanto addentava una caldarrosta di gomma e ci parlava sopra, sputando gli artefatti in ogni direzione che coincidesse con la mia cianotica carcassa. Non trovai di meglio che chiudere gli occhi e immaginare una pistola, lucida, sensuale. Carica. Lo trapassavo con quindici colpi in testa, annusavo stordito la polvere, infilavo le dita nel suo cranio deforme e lo agitavo come un pessimo bartender.
Il mio salvadanaio. Lo aprivo solo a Natale e, comunque, non c’era niente. Mai niente di buono, mai niente di vero.
“Che c’è, non ti diverti, stronzetto? Il gioco non è ancora terminato, perciò urla, schiamazza, fai casino! Fammi vedere un bel sorriso su quella faccia di merda e urla, urla pure se vuoi”.
Io muto.
La lingua me l’aveva strappata con una forchetta, un mese fa, prima di cena. Diceva che le mie occhiate gli bastavano e che in questo modo nessuno avrebbe potuto interpretarmi. Diceva che era per il mio bene , che il mondo avrebbe avuto compassione. Era un mio desiderio, diceva, e non mi avrebbe fatto mancare niente.
Mi mancava la mamma. Mi mancava il suo modo di abbracciarmi, di accudirmi. Mi mancava il suo cadavere per casa.
Quella forchetta la porto sempre addosso, per ricordarmi chi ero e cosa sono.
Il muto a sessanta metri di altezza comincia a dimenarsi, della schiuma bianchiccia gli cola dal naso e dalla bocca. Arrivati in cima, il muto si accascia a terra, tarantolato dall’aria e da chi la respira a sbafo.
“Un altro dei tuoi stupidi scherzi, eh? Adesso t’ammazzo”.
Stavolta fu preceduto. La forchetta gli si infilò nel collo mentre incalzava la scalata verso il basso.
Sangue nero dappertutto, dalla trachea gli risalivano le caldarroste, come piccoli fiotti di guano alla ricerca dell’uscio più adatto per un imbocco a sorpresa. A un tratto, un ghigno. E se ne andò.
Il muto lo sapeva che da quel giorno doveva crescere in fretta. Afferrò l’arma del delitto e si riaprì l’appendice che rimpiazzava l’organo del gusto. Non pianse, non volle, non riuscì neanche a soffrire come doveva. Era corroso. E muto.
Lo sportello si schiuse rivelando fetidi presagi di morte. Lo trovarono che vegliava sulla bestia.
“Oddio piccolo, che ti è successo? Chissà cosa devi aver passato!! Vieni qui,non
aver paura. Non sono tutti uguali, gli uomini. Ma riesci a parlare? Dove sono i tuoi genitori? Ah non ce l’hai? Mi prenderò io cura di te, d’ora in poi. Vedrai, ci divertiremo assieme. La vuoi una caldarrosta?”
Feci cenno di sì, con la forchetta. E muto, lo seguii.
Alessandro Verzili gennaio 2007
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