Il Silenzio Del Cane
Titolo: Occhi Rossi
Autrice: Adele Patrizia D’Atri
Editore: Lulu
Pubblicazione: 2007
Prezzo: 10.50€
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… E nel momento in cui lui ansimava su lei, nudo nell’anima e nel corpo, una finestra si aprì sul giardino, nella notte…
Un cane. Dai denti acuminati, dagli occhi sanguigni. Infernale. Era entrato dalla finestra. Con ferocia sbalorditiva si era scagliato sull’uomo, che nel suo connubio non si era reso conto di niente, prima che la belva gli afferrasse con i denti aguzzi lo scroto.
A quel punto non era stato pronto a liberarsi della fiera. Urlò, mentre il sangue oramai colava sulle gambe nude di sua moglie. Non riusciva a scarcerarsi dalla morsa dell’animale nonostante gli sforzi. La lotta sembrò durare un’eternità fino a quando il corpo esanime dell’uomo si spiaccicò sulla donna. Lei, ferma nella sua paura, ghiacciata dall’orrore, piegata dalla forza immonda dell’animale, era convinta di essere la successiva vittima. Invece il cane, dopo aver compiuto l’omicidio scomparve. In una nuvola di vapore rosso. O forse non era vapore. Un odore pungente invase la camera da letto.
Passarono anni. Lei non dimenticò. Non avrebbe potuto. Aveva partorito una bambina. Maria. Questo era il nome. Gli occhi di un nero inchiostro le rimembravano quelli del padre.
Maria crebbe avvenente ed intelligente, anche se un’ombra buia spesso si evidenziava sul suo bel volto. A 23 anni Maria era tra le giovani donne più ambite e note del suo quartiere. Era una ragazza sana di principi, una cattolica convinta. Non c’era domenica in cui non si recava a messa. Era anche cuoca in una mensa per vagabondi. Conduceva una vita pacata nella sua casa, ormai deserta. Sua madre, povera donna, era morta precipitando dalle ripide scale della soffitta.
Maria aveva una vera e propria passione per i giacinti. Una volta al mese si recava al cimitero ad ornare le lapidi dei genitori con questi fiori. Ma Maria non era solo chiesa e volontariato. In realtà aveva qualcosa in più degli altri. Odiava visceralmente ogni cane. Di qualsiasi razza e taglia, purché maschio. Non poteva dimenticare il racconto della madre sul decesso del padre. Celata dall’oscurità attirava le bestiole nel suo domicilio. Li uccideva e ne faceva concime per i giacinti.
Sin da piccola Maria aveva detestato quegli animali. Proprio allora aveva cominciato la sua opera di eliminazione delle maledetta razza. La prima vittima era stato un barboncino. Con i suoi occhietti languidi si era avvicinato speranzoso con la coda scodinzolante. Con la linguetta in bella mostra. Maria lo accolse. La prima cosa che fece fu di tirare i denti alla bestiola. E mentre dalla bocca dell’animale sgorgava sangue, con le forbici per potare, gli fece saltare la coda. Mentre l’animale si dibatteva legato dalle zampe anteriori ad un albero, con le stesse armi usate per recidere la coda tagliò senza mezzi termini l’apparato genitale della bestia. Poi si sedette a contemplarlo, in attesa che crepasse. Non sentiva i guaiti, era in estasi. In più in aperta campagna nessuno avrebbe scoperto mai il suo misfatto. Quando il cagnolino esalò il suo ultimo respiro lo staccò dall’alberò, lo sotterrò e corse a casa felice. Come non lo era mai stata. Senza nessuna ombra in volto. Gli occhi lucidi febbricitanti. I capelli castano ramato con i boccoli sconvolti. Il fiocco rosso, che legava la coda, slacciato. La scarpine bianche sporche di fango. Ma era felice. Felice di correre. Felice di girare all’impazzata su se stessa. Il suo primo assassinio. Il suo primo attimo di gioia da quando era nata. La vendetta effettuata che colmava i suoi vuoti.
Quei cani dannati le avevano strappato suo padre prima che potesse conoscerlo. Era cresciuta con una madre inconsolabile e atterrita. La sua mamma. La sua dolce mamma che aveva paura solo a sentire abbaiare un cucciolo di barboncino. Nessun cane mai avrebbe azzannato le carni di sua madre. E figuriamoci le sue. Mai. Stupidi animali, che fingevano di essere il miglior amico dell’uomo per poi azzannarlo nel cuore della notte.
Così Maria aveva affinato le sue tecniche di assassinio. Ormai li attirava in casa e la prima cosa che faceva era di trinciare le corde vocali affinché potesse agire in piena calma, inosservata. Nella sua cantina. Lì, dove suo padre aveva costruito le mensole su cui disporre le conserve, adesso sostavano i suoi attrezzi di tortura. Non aveva mai pensato ad anestetizzare le piccole e grandi carogne che trucidava. Non ci sarebbe stato gusto. Lei voleva vedere la sofferenza nei loro occhi, il terrore, l’angoscia. Dopo che aveva provvisto al silenzio del cane, provvedeva ai vari tipi di tortura. Era una gioia strappare i denti di quegli esseri. Bestie buone a nulla, capaci solo di riempirsi di zecche, mangiare, sporcare e uccidere padri. Questi erano i suoi pensieri mentre provvedeva a rendere il cane sterile con i suoi sopraffini strumenti. Le forbici per potare. E dopo avere portato il cane all’estremo dolore, se ancora non era crollato, si accomodava nella sua poltrona in attesa della dipartita, già pensando al luogo a cui destinare la nuova vittima e alle piantine che sarebbero nate floride sul suolo.
Ma la vita non può essere tutti giacinti e fiori. Maria questo non lo sapeva. Aveva creduto di potere vivere così in eterno.
Proprio dopo un ennesimo assassinio di un pastore tedesco successe qualcosa che non si era aspettata. Si recò nella stanza dove un tempo era morto suo padre, ora sua camera da letto. Indossò la sua camicia da notte preferita, con i fiorellini rosa e i merletti bianchi, e si mise sotto le coperte. Proprio mentre stava per addormentarsi sentì rumori sordi. Come uno zampettare di cani. Di molti cani. Si alzò nel gelo della notte. In piedi nella sua camicia leggera, aprì la finestra. All’inizio non vide niente. Poi sforzando la vista nel buio vide i suoi giacinti estirpati dal suolo.
Chi mai avrebbe potuto commettere un simile delitto nei suoi riguardi? Chi? Proprio lei che si recava in chiesa tutte le domeniche, poteva meritare tutto questo? Senza preoccuparsi del gelo o dei suoi piedi nudi afferrò un candelabro e corse in giardino. Silenzio. Buio. Nessun suono che rievocasse lo zampettare dei cani. Nessun guaito. Nessun ululato. Niente. Vuoto intorno a lei. Per la prima volta in vita sua in preda allo sgomento. Per la prima volta in vita sua debole ed infreddolita, armata di un candelabro. Aveva paura. Una fifa blu come avrebbe detto il suo piccolo vicino di casa a cui faceva a volte da babysitter. Cosa accadeva? Non vedeva e non sentiva niente, eppure c’era qualcosa che non andava. Il frusciare delle foglie le arrecava un tremore insolito. Paralizzata in mezzo ai suoi giacinti, calpestati e sradicati. Tremante per il gelo ed il terrore.
Fu allora che attorno a lei si alzarono le fiamme. Fu allora che comparvero branchi di cani inferociti che giravano come impazziti attorno al cerchio di fuoco in cui era. Li riconobbe. Ad uno ad uno. Erano i cani che aveva ucciso. Ma si limitavano a correre lungo il cerchio di fuoco. Non capiva cosa accadeva. Era solo un’allucinazione? Era solo un incubo?
I suoi piedi doloranti le ricordarono che non si trattava affatto di una creazione della mente. Ma come salvarsi? Sicuramente l’avrebbero sbranata. Ma come era strano… cani fantasma… o zombi? Che cosa succedeva? E perché giravano in cerchio, perché? Perché non la facevano finita e la uccidevano, piuttosto che lasciarla in quell’angoscia? Forse un cane fantasma non era in grado di uccidere, ma solo di atterrire? Il loro progetto era di farla morire di paura? Bene. Non ci sarebbero riusciti.
Ma proprio mentre arrivava a questa conclusione e mentre la calma cominciava ad invaderla vide una nuvola di vapore rosso che si materializzava davanti ai suoi occhi. Un odore forte e disgustoso pervase l’aria glaciale. E poi comparve lui. Un cane. Mostruoso, enorme. Dagli occhi rossi. Dal pelo sporco e nero. Dalle zanne lunghe e affilate. Non ebbe il tempo di vedere altro. Si trovò stesa in terra. Il cane su di lei. Rabbioso, grondante di una strana saliva verdastra. Le sue zampe sulle cosce nude di lei, graffiavano la pelle. Il sangue le macchiò di rosso. Poi un morso e non vide più niente. Il cane le aveva strappato la calotta cranica. Si alzarono fiamme altissime in cui tutti i cani si immersero.
L’indomani della casa di Maria non rimase niente. dissero che era scoppiato un incendio di cui la povera ragazza era stata vittima. Nessuno pensò di indagare. Ora Maria dorme affianco ai suoi genitori.
Ogni tanto il bimbo a cui faceva da babysitter le porta dei giacinti.
Adele Patrizia D’Atri 25.11.2004
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