I Mostri
Titolo: Occhi Rossi
Autrice: Adele Patrizia D’Atri
Editore: Lulu
Pubblicazione: 2007
Prezzo: 10.50€
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I mostri sono dietro gli angoli. Chiusi dentro gli armadi della vita. Si arrampicano sui soffitti. Sono nei corridoi illuminati dal sole. A volte scompaiono per apparire a sorpresa quando hai dimenticato che esistono. I mostri seguono le nostre orme, fiutano il nostro disagio, corrodono i nostri pensieri, induriscono il nostro animo.
In compagnia di questi pensieri trascorre il giorno seduto su una panchina. I minuti e le ore non hanno importanza. L’ansia per il trascorrere del tempo è storia passata. I mostri sono ovunque, dietro le scrivanie dei dottorini che cercano di curarlo, sotto i letti polverosi di vecchie pazze. I mostri non sono ossessioni. Esistono. Non sono quelli descritti da Lovecraft. Non è Cthulhu il mostro. I mostri sono ben altri e sono reali. Reali come la vita stessa, se è vero che esiste. Reali come un dannato crampo al piede. Se chiudi gli occhi e respiri profondamente li potrai scorgere lì, nell’angolo remoto e polveroso dei tuoi trascorsi. Li vedi abbracciarti, gremirti, soffocarti. Per cosa deve essere curato lui? Per cose che tutti vedono e fanno finta di non vedere? Solo perché ne ha ammesso la presenza, merita forse l’appellativo di folle? Eppure è così. Durante le sedute con il dottor Netto ha provato a chiarirgli il concetto. Lui, a contrario di altri, ha solo ammesso quello che è. La gente avanza a passi spediti con i paraocchi. L’impegno cela i mostri. Nella notte i sogni sono imprigionati in un sonno profondo. Si annulla il proprio genio, purché non ammettere che proprio lì, sì proprio lì dietro la finestra ombreggiata della camera da letto, c’è un mostro. Un mostro che aspetta.
Ed era proprio così che era andata la prima volta che lo aveva visto. Nascosto dietro le tende della finestra aperta. Era trasparente, sembrava un angelo. Le tende sottili gli avvolgevano il corpo esile. Non ne ebbe paura, ne fu attirato. Come in trance si diresse verso il mostro, ma non spostò le cortine. Attese che parlasse, ma la creatura cominciò a piangere.
“perché piangi?”
“perché non lo hai fatto tu”
Allibito da quella risposta si sedette sul bordo del letto smarrito, senza ribattere. Capiva cosa aveva voluto dire la creatura. Ritornò col pensiero al giorno in cui non pianse. Si alzò di scatto e spalancò con forza le tende. Il battito del suo cuore rallentò per poi cominciare una corsa sfrenata. La sua bocca divenne arsa come i deserti. Il volto della creatura era una maschera di sangue. Le sue mani erano scorticate fino a mostrare le ossa, il suo vestito bianco era chiazzato di rosso. “Anita.Anita” Una folata di vento fece alzare i capelli castano scuri del mostro. Per un solo istante la figura riprese le sembianze di Anita. I capelli lunghi scuri le ricaddero sul viso dolce. Le mani riapparvero lisce e affusolate. Poi scomparve, lasciandolo solo. Anita era stata sua moglie, morta in un incidente stradale che l’aveva resa irriconoscibile. Lui non vide il cadavere, non pianse. Infagottò quello che gli restava della sua esistenza e progredì lungo il sentiero ripido dei giorni.
Chiuse le finestre e sentì un brivido. Cercò di dire a se stesso che era stata un’allucinazione. Ma non era così. Si buttò sul letto fino a che i suoi battiti rallentarono ed il suo respiro tornò regolare.
Dormiva. E sognava.
Si rivedeva raccattare tutte le cose di Anita e buttarle in un grosso sacco verde. Si vedeva chiudere l’uscio di quella che era stata la loro casa. Sentiva sul viso l’ arietta sottile della sera. Udiva il rombo del motore che lo allontanava dai mostri. Quanto tempo era trascorso? Dieci anni? Forse più.
Si svegliò tra i singhiozzi. Piangeva. Fuori era buio, la sua camera non gli era mai apparsa così avvilente e orrida. Accese la luce e indossò il pigiama. Si chinò a raccogliere le ciabatte e vide un’ombra sotto il letto. Stette immobile non sapendo cosa fare, cosa pensare. Aveva paura. Anzi era paralizzato. Scappò in cucina sbattendo la porta. Si accasciò sul divano e pensò che era solo un incubo, un terribile incubo. Non c’era motivo per non tornare nella camera. Così fece, seppur intimorito. Accese tutte le luci e strappò via le coperte dal letto, poi prese la lampada dal comodino e la mise sul pavimento, per illuminare sotto il letto. L’ ombra era ancora lì. Oddio era davvero lì. Non era stato un incubo. Anche Anita era reale, quindi. Indietreggiò fino al comò e cadde seduto. Che era quell’ombra? Sentiva il suo cuore correre all’impazzata, ma se non voleva rimanerci secco doveva agire, vedere cosa si nascondeva nel buio. Poteva trattarsi di un oggetto inanimato.magari un cumulo di panni finito lì per caso. No. Non era così. Lo sapeva. Al diavolo, doveva vederci chiaro. Illuminò di nuovo il pavimento e vide l’ombra muoversi, avanzare verso di lui. Oddio! Che era? Un animale? Le dimensioni erano quelle di un gatto piuttosto grande. Impossibile. Non poteva essere entrato un gatto. Abitava all’ottavo piano e nel condominio erano vietati gli animali. Dannazione, non poteva essere neppure un topo, però. Era impensabile, troppo grosso. Neppure le pantegane del Tevere erano grandi quanto quell’ombra. Doveva trattarsi di un’allucinazione. In ogni caso non si sentiva così coraggioso da inoltrarsi nella penombra e senza un’arma nel covo dell’ essere. Così si armò di una scopa, un coltello da prosciutto e di una torcia elettrica, ma tremava e non aveva nessuna voglia di scoprire di che animale si trattasse. Poteva sempre chiamare il vicino di casa, dirgli che sotto il suo letto c’era. cosa c’era? Che gli avrebbe detto? C’è un gatto? E avrebbe chiamato il vicino per dirgli che c’era un innocuo felino sotto al suo letto? Poteva dirgli che c’era una pantegana. No che non poteva. E lo sapeva. Tra l’altro se fossero state solo allucinazioni? Lo avrebbero scambiato per un folle. Doveva cavarsela da solo. Spalancò la porta della camera da letto e si lanciò di scatto sotto il letto per poi uscire di gran carriera allo stesso modo in cui era entrato. Non era un gatto. Non era una pantegana. Era un enorme scarafaggio. Un gigantesco, nero, lucido scarafaggio. Uscì in fretta dalla camera da letto senza girarsi a guardare se l’orribile mostro lo inseguiva. Chiuse a chiave la porta, come se la bestiaccia fosse in grado di abbassare la maniglia. A quel punto gli venne in mente che forse la blatta era in grado di tagliare il legno della porta. Oddio che doveva fare? Aveva sempre detestato quegli insetti. Ne aveva una paura fottuta. Era una fobia che pensava di aver cancellato con la crescita. Invece l’aveva solo aggirata. Come aveva fatto con la morte di Anita. Non poteva essere vero. In attesa di sentire le zanne dell’essere rosicchiare la porta si sedette in corridoio e ponderò come uscire da quell’incubo. Inutile prendersi in giro, non avrebbe mai avuto il coraggio di affrontarlo neppure con una pistola, che tra l’altro non possedeva. E allora come? Gli tornò alla mente una pubblicità che parlava dello scarafaggio nipponico. Quegli astuti giapponesi, vittime dei nemici neri corazzati, avevano scovato un prezioso stratagemma. Uno spray geniale. Un affare che si poneva al centro della stanza, se ne tirava via la linguetta ed emetteva un gas velenoso capace di sterminare qualsiasi essere vivente. Capace di uccidere persino gli scarafaggi, statisticamente favoriti nella sopravvivenza dopo un’esplosione atomica. Dunque, riassumendo, bastava trovare un negozio aperto tutta la notte provvisto del portentoso spray. Un po’ complesso alle undici di sera, ma non impossibile. Se non fosse che lui era in pigiama e che il suo armadio si trovava in camera da letto. Al diavolo sarebbe uscito in mutande se fosse stato necessario. E con le ciabatte, perché no? In fondo non erano neppure così brutte. Prese le chiavi e uscì di fretta, sperando nella buona sorte o almeno di non essere scorto dal vicino di casa.
Non poteva pensarci. Un grosso scarafaggio sotto il letto. Forse era affetto da una qualche patologia psichiatrica, o peggio, un tumore al cervello. Allucinazioni. Solo allucinazioni, ecco di cosa si trattava. Come aveva potuto credere si trattasse della realtà? Davanti al drug store, con le mani nelle tasche del pigiama, appoggiato allo sportello della sua macchina si chiedeva se non fosse il caso di prendere un appuntamento con il suo medico. Ad ogni modo avrebbe acquistato lo spray. Anche le normali blatte lo infastidivano. Così, in ciabatte, entrò nel negozio. Passò tra gli scaffali sotto lo sguardo divertito dei due commessi. Ricordò il giorno in cui, bambino, si era recato a scuola in ciabatte. Che vergogna. Era stato davvero umiliante. Quella mattina era in ritardo pazzesco. Non aveva fatto caso, nella corsa fino a scuola, di essere uscito in ciabatte. Tra l’altro, sempre per via del ritardo, non aveva incontrato nessuno fino a scuola. Si ero accorto delle sue ciabatte di lana quando ormai era troppo tardi. La lezione era cominciata. I risolini dei suoi compagni gli fecero drizzare le antenne. Abbassò lo sguardo sui suoi piedi e si accorse che era in ciabatte. Ciabatte. Troppo lusinghiero chiamarle ciabatte. Marroni imbottite di lana grigia. A forma di scarponcino. Una ciabatta certo non adatta ad un bambino, bensì più ad un nonno immobilizzato con seri problemi di circolazione ai piedi. Dinanzi ai suoi compagni arrossì violentemente. Lo beffeggiavano. Avrebbe voluto sprofondare. Era stato talmente forte lo shock che non lo avrebbe dimenticato per tutta la vita. Invece non era andata così. Finite le elementari si era liberato dell’ “incubo-ciabatta” e non ci aveva mai più ripensato. E allora perché mai doveva pensarci adesso? In fondo le sue attuali ciabatte non erano certamente sgraziate come quelle di allora. Ma l’imbarazzo era un demone. Uno dei peggiori per essere precisi. Guardò i commessi e notò risolini trattenuti a stento. Doveva concentrarsi. Aveva bisogno dello spray. Forse a casa ad attenderlo c’era lo scarafaggio. O forse no. Comunque era lì ed avrebbe fatto il suo acquisto. Forse la sicurezza di essere armato avrebbe placato le sue fantasie. Quegli sguardi continuavano a distoglierlo dalle sue ricerche. Decise di chiedere l’ insetticida direttamente ai commessi, ma mentre si avvicinava i due assunsero un altro aspetto. Divennero mostruosi. Teste infantili su corpi adulti. Le mani dei due stavano mutando aspetto. Notò il cadere delle unghie e lo stillicidio di sangue sul pavimento. La pelle dei loro palmi si andava sollevando emettendo un rumore alquanto sgradevole, come lo scollarsi da qualcosa di appiccicaticcio. L’odore che aleggiava nell’aria era nauseante, come di formaggio andato a male. O di piedi sporchi. Molto luridi. Poi notò il palmo di un commesso squarciarsi. Dal taglio prima uscì un immensa dose di pus, poi sangue. Ed in ultimo finalmente lei. La suola di gomma. Le mani stavano assumendo l’aspetto di ciabatte. Marroni. No, non erano fottute allucinazioni!! Quegli orribili mostri ridevano e gli mostravano le mani-ciabatte. Si burlavano di lui.
“Ah quel giorno che venne a scuola in ciabatte! Che forza! Mai visto un tonto come lui. Avrebbe dovuto interpretare Loyd al posto di Jim Carrey in “Scemo & più Scemo”.
A quella battuta i due scoppiarono a ridere a crepapelle. Fino a quando lui prese da uno scaffale un martello e si scagliò su di loro. Perché non c’è niente al mondo che fa infuriare di più della vergogna. Niente incita la violenza come l’imbarazzo. Niente. Seguì una breve lotta in cui i commessi la fecero da padroni. Poi chiamarono la polizia ed un ambulanza. Capiva che non erano i commessi i mostri. Sapeva che il vero mostro era la vergogna che aveva camuffato i loro corpi. In ogni caso non era un male essersi svegliato in ospedale. Dopo un attento esame, la diagnosi fu “stress”. I commessi ne ebbero pena e decisero di ritirare la denuncia. Decise che si sarebbe curato in una clinica privata, un luogo in cui riposare e seguire una terapia.
Ora si trovava lì, seduto su una panchina di “Villa Bentivoglio”
“Signor Bruni, è sveglio?”
Era l’infermiera che andava ad avvisarlo che il dottor “I-Netto” era disponibile per la terapia quotidiana. Si alzò dalla panchina dandosi un’ occhiata intorno. Nessun mostro all’orizzonte. Si avviò allo studio.
“Dottore, è necessario che mi creda. I mostri esistono.” “Certo, ma adesso si accomodi e si rilassi”
“lei non pensa che io sia stressato. Pensa che io sia schizofrenico, depresso e chissà cosa.”
“Io non penso niente, ora si calmi.”
“Lei, lei..” e lo additò minaccioso “mi tratti da uomo, non da demente!”
Il medico sembrò riflettere. Rimase in silenzio per un tempo che a Bruni sembrò lunghissimo. Poi parlò:
“Vuole che io la tratti come se non fosse un paziente? Bene! Non ne posso più dei suoi mostri. Mai, e dico mai, mi è capitato di conoscere un uomo come lei. Demente dice? Magari fosse un demente! Non c’è termine per definirla.”
Poi parve calmarsi. Con voce bassa e infinitamente avvilita disse:
“di una cosa sola possa ringraziarla” alzò gli occhi sul viso attonito di Bruni e riprese:
“ho capito che non sono adatto per questa professione. Per fortuna in tempo. Lei è stato il mio primo paziente, appena uscito dalla scuola di specializzazione. E di questo la ringrazio. Non voglio passare la mia vita a curare persone annoiate che si inventano mostri.”
Bruni si sentì bruciare quelle parole dentro, fino allo stomaco. “senza dubbio, dottore, lei non è idoneo. Non è idoneo né come psichiatra, né come medico, e me lo lasci dire, neppure come uomo.”
Si alzò dalla poltroncina e fece per andare via. Invece si girò e aggiunse:
“un giorno vedrà la scure dei suoi mostri ricadergli sul capo, ma quel giorno io non sarò più qui a dirle come liberarsi di loro.”
Andò via sbattendo la porta. Netti rimasto solo, si strappò il camice da dosso e calpestò la sua targhetta fino a quando non si ruppe. Annullato si sedette con la testa tra le mani. Ripensò alle parole del padre. Del suo celebre padre. Illustre chirurgo, stimato scienziato.
“Non diventerai mai medico. Non sopporti neppure la vista del sangue. Anche se tu decidessi di occuparti di qualcosa come la psichiatria avresti comunque contatti con cadaveri, infezioni, ustioni, piaghe. E infine ricorda: le cancrene della psiche a volte possono essere peggiori di quelle fisiche.”
Maledetto padre! Maledetta verità! E poi che schifo la cancrena. Ripensò a qualcosa a cui non aveva più pensato da anni. Ritornò ai giorni del suo tirocinio, quando un sadico professore lo aveva condotto con lui da una paziente. La donna era posta su un lettino. Nella stanza l’odore era insopportabile. Faceva caldo. Dalle 7 del mattino trottava per la corsia saltellando da una camera all’altra. Ed ora quel pazzo lo costringeva a vedere e magari eseguire con lui “questo piccolo intervento”come lo chiamava. Inoltre la piccola e pestilenziale stanza era gremita di personale.
“Avvicinati, guarda..guarda la cancrena cosa ha fatto! Adesso amputiamo i talloni.”
Guardò facendosi forza e trovò finanche il coraggio di dire:
” la paziente verrà addormentata?”
il dottore lo guardò incredulo e canzonante:
“è carne morta, figliolo, non sentirà nulla”
e così il medico cominciò sadicamente a tagliuzzare i poveri talloni in necrosi, tra le urla strazianti della paziente. Uscì dalla stanza in preda a tremori. Pensò che non poteva diventare il medico. Ma poi guardò l’orologio e vide che erano le due e doveva andare a lezione. Così non ci pensò più.
Adesso tra le lacrime del suo fallimento ci ripensava. Prese le sue cose ed uscì. Una volta in macchina accese la radio e partì, ma non fece molta strada. All’uscita dell’ospedale c’era un incidente stradale. Era ancora un medico e doveva prestare soccorso. Così scesa dalla BMW e si avvicinò in fretta verso le due macchine. Sembravano tutti morti, si spinse sul sedile posteriore e vide che qualcuno ancora respirava. Non qualcuno. Un mostro. Una cancrena con gli occhi. Emanava un terribile lezzo. Non era possibile che fosse viva, eppure parlò: “io sto bene, ma sono morti tutti”
Non ebbe neppure un briciolo di forza per replicare. Strillò con quanta forza aveva e poi cadde, stroncato da un infarto.
I mostri esistono
(uccidono)
Le paure ti paralizzano
(sono i mostri)
All’ombra dei cipressi, il signor Bruni poggia un mazzo di gigli sulla tomba del giovane psichiatra. Si china e lascia che il vento disperda le sue parole:
“i mostri esistono. Le paure sono mostri, capaci di uccidere. Una volta visti tenteranno con ogni mezzo di eliminarti. Devi essere più svelto e sterminarli. Se neghi la loro esistenza, hanno già vinto senza lottare. Rimarranno invisibili, ma ti consumeranno adagio. Guarda dentro te, scova i tuoi mostri e uccidili, non lasciare che la tua diffidenza ti distragga dalla realtà.”
La vita è un libro di oscure pagine da cui trapelano i mostri che ognuno ha nell’anima.
Adele Patrizia D’Atri 11.06.2005
Indice dei Racconti di Adele Patrizia D’Atri
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