Fumo

Racconti


Il fumo azzurrognolo aveva formato una coltre nebulosa che aleggiava pigra attorno alla luce a neon impolverata. L’odore acro del tabacco aveva impregnato ogni lembo di stoffa della stanza, mescolandosi impercettibilmente a quello più pungente dell’alcool di marca scadente e donando alla stanza un vago sentore di obitorio.
Da fuori provenivano incessanti le urla del pubblico pagante.
Li immaginava. Li fiutava. Accaldati e maleodoranti a sbraitare il suo nome come se il ripeterlo potesse fare avverare chissà quale recondito desiderio.
“Carne morta”.
Sussurrò allo specchio di fronte al quale era seduto.
Spense l’ennesimo mozzicone nel posacenere accanto al divano ed esalò, lugubre, l’ultimo sbuffo di Marlboro prima della mattanza. Non c’era altro modo per definire lo show che da quasi dieci anni si accingeva a replicare con metodica devozione e straripante noia.
“Cinque minuti e sei in scena mostro”.
Gary, il trovarobe, lo stava avvertendo dal corridoio del backstage. Non rispose. Sapeva benissimo quanto mancava all’inizio dello spettacolo ed era perfettamente pronto a dare il peggio di sè, il meglio, si era accorto, non interessava veramente a nessuno.
“Pagherebbero qualunque cifra per un’ora di sorrisi, ma darebbero la vita per venti minuti di odio”. Era la frase con la quale Mike, il suo primo agente morto di overdose quattro anni prima, lo aveva convinto ad abbandonare i panni del mite chitarrista jazz per indossare quello che sarebbe divenuto il suo attuale sudario: Monster il dio del rock.
“Che stronzata”, sorrise e riprese a dipingersi le labbra di nero. Aprì il cassetto della toletta ed estrasse la custodia delle lenti a contatto che infilò con gesto rapido ed esperto. Si alzò accompagnando l’impresa con una dolorosa imprecazione, gli anni si cominciavano a far sentire e la sciatalgia anche. Prese dall’armadio la fida parrucca di ricci neri e la calzò con cura sui capelli biondi dal taglio a spazzola stile old marine.
Si rimirò per qualche istante riflesso fra le lampadine che contornavano la superficie ombrata dello specchio. L’opera di restauro era riuscita perfettamente anche per quella sera. La sua figura magra era inguainata in una aderente tutta di pelle nera che metteva in risalto il fisico scolpito da ore di palestra pomeridiana. I ciondoli inneggianti al Signore delle tenebre erano stati lucidati e fissati ai bottoni della salopette, in modo che risaltassero ed attirassero l’attenzione dei babbei che anche quella notte avrebbero rimpinguato il suo conto in banca. Il volto era semplicemente spettarle e le lenti a contatto azzurro ghiaccio lo rendevano più demoniaco del solito.
“Un minuto mostro, sbrigati, là fuori stanno già dando di matto”.
Uscì sbattendo fragorosamente la porta alle sue spalle. Recitò mentalmente qualche frase scaramantica ed uscì sul palco. Avvolto nella solita mefistofelica nuvola di fumo, che avrebbe dovuto simulare la porta sulfurea dell’inferno, ma che in realtà null’altro era se non un’odorosa dose di borotalco per bambini soffiato da un vecchio ventilatore a pale, urlò la sua rabbia posticcia.
(Beccatevi la vostra dose quotidiana di bugie, piccoli bastardi), pensò, (osannate il mostro e pregate che il Diavolo accetti la vostra anima. Io non vedo l’ora di tornare in albergo e farmi una doccia).
“MONSTER… MONSTER… MONSTER”
Si avvicinò alla folla che si accalcava sotto le transenne e lo spettacolo ebbe inizio.
Alle due e mezza di una notte senza luna e con poche stelle era sdraiato, in stato di semi incoscienza, sul letto matrimoniale di un solitario alberghetto a pochi chilometri dal teatro nel quale si era esibito. Anche per quel giorno aveva fatto il suo dovere: esaltato il pubblico; squartato un paio di bambolotti-neonati rigonfi di vernice rossa per auto, durante una sua personale rivisitazione di una messa nera; tentato di augurare, senza successo, la buona notte alla figlioletta di sette anni che ora dormiva placida nel suo caldo lettino fra le cure, non proprio amorevoli, della sua ex-moglie; controllato l’andazzo delle sue azioni bancarie e fissato un nuovo appuntamento con la sua analista. Finalmente poteva godersi un meritato riposo.
“La quiete dopo la tempesta” mormorò alla stanza vuota.
Si issò a fatica a sedere sul letto sfatto e si osservò nello specchio di fronte alla spalliera. Strano, pensò, era convinto di essersi tolto la parrucca appena rientrato nel camerino dopo lo spettacolo. Si passò una mano sulla testa ed i suoi polpastrelli accarezzarono le punte ispide dei cortissimi capelli biondi.
Si avvicinò titubante alla sua immagine riflessa.
La sagoma in boxer compiva esattamente i suoi movimenti, ma il suo viso era incorniciato da lunghi capelli neri ed i suoi occhi rilucevano di una tetra luce azzurrognola.
“O Cristo!”
“Non proprio”.
“O Dio…”
“O me, fai prima”.
Si sedette di fronte all’immagine distorta e sfiorò la superficie vitrea con la punta delle dita. Il suo speculare gemello fece altrettanto, ma sorridendo.
“Alla fine è successo”, bofonchiò,”mi aveva avvertito la mia analista che prima o poi sarei entrato in conflitto con il mio personaggio. Ed ora ci siamo. Ben venuto nel club degli esaurimenti nervosi!”.
“Non sei pazzo James Edgar Manson. Sei molto più savio di tanta gente di mia conoscenza, ed anche più fortunato”.
“Parla anche…è peggio di quanto credessi…”.
“Sei convinto che questa apparizione sia il frutto della tua immaginazione?”.
“Sì, lo ritengo alquanto probabile”.
“Ti sbagli James. Se vuoi mi presento in grande stile con un abbigliamento e delle sembianze più consone alle rappresentazioni popolari che mi ritraggono”.
“Prego?”.
“Smettila di far finta di non capire. Mi hai evocato per così tanto tempo, così insistentemente e con modi così convincenti, anche se devo ammettere che l’heavy metal è troppo anche per me, che non potevo più esimermi dal degnarti di un incontro”.
“Tu…proprio tu…saresti…il…”.
“Diavolo, esattamente”.
“Oddio…”.
“Mai imprecazione fu meno azzeccata figliolo. Ho deciso di assumere l’aspetto del tuo alterego ritenendo che fosse meno traumatico e demodé del solito caprone puzzolente”.
“Il diavolo”.
“Sei monotono…”.
“E cosa vuole da me il diavolo?”.
“E cosa mai potrà volere da uno dei suoi più abili pubblicitari: la tua anima, è ovvio”.
“E scommetto che in cambio mi offrirai fama, denaro, immortalità…Non ho mai creduto a queste cose. Insomma io ci campo vendendo fumo ai creduloni. Io sfrutto la loro malafede, le loro paure ed i loro desideri. Amico io vendo un prodotto!”.
“E lo vendi talmente bene che io ho deciso di comprarlo. Signor Manson ho voglia di concludere una transazione con te”.

L’immagine bidimensionale si avvicinò al limitare dello specchio. La superficie prese a gonfiarsi ricalcando esattamente le fattezze del mefistofelico interlocutore che acquistò spessore corporeo in un attimo mettendosi a camminare tranquillamente per la stanza illuminata con passo spedito e signorile.
“Non credo di avere nulla che mi interessi venderti”.
“Non ti ho ancora fatto la mia proposta”.
“Non mi interessa ciò che hai da propormi. Il successo ce l’ho, i soldi non mi mancano, le donne mi disgustano già da un paio di anni. Non c’è niente che tu possa offrirmi”.
“La felicità, ecco cosa posso offrirti. Sei mai stato veramente felice in questi ultimi dieci anni James?”.
“Queste sono proposte da angelo mio caro “.
“La felicità che intendo io è molto diversa dall’accezione celeste. Io ti offro la felicità senza condizioni, niente rimorsi, niente ripensamenti, niente fatica. Ti offro l’opportunità di essere amato da chiunque senza che tu debba far nulla per meritarlo. Le folle penderanno dalle tue labbra, i fans si moltiplicheranno a dismisura. Nessuno sarà più in grado di resistere ai tuoi voleri. Per ottenere qualunque cosa ti basterà allungare la mano e prenderla”.
“Non …”.
“Tua figlia, James”.
“Melanie non c’entra nulla in questa storia. Non è mai stata coinvolta con la mia vita. Non è mai stata veramente mia”.
“Lo sarebbe. Adorerebbe il suo papà e smetterebbe di guardarlo disgustata perché la mamma le ha mostrato le foto degli spettacoli. Non si spaventerebbe più all’idea di salire da sola in macchina con lui perché uccide i bambini sul palco scenico…”.
“Io non farei mai del male a mia figlia, non l’ho mai fatto a nessuno”.
“Lo so James, io so tutto di te. So quello che pensi, quello che vuoi, quello che sogni e so che posso donarti tutto questo, compreso l’amore, anzi no, la venerazione di Melanie”.
James aveva gli occhi iniettati di sangue e continuava a fissare Monster ritto davanti a sè pervaso da un milione di pensieri contrastanti.
“Cosa vuoi in cambio?”.
“La tua anima, e…”.
“E…cosa?”.
“E voglio una prova della tua devozione”.
“Parla”.
“Bene, bene, bene”, si sedette sulla sponda sinistra del letto, “hai sempre inneggiato a me nei tuoi spettacoli, e, a dire il vero, mi hai già reso un buon servigio. Non sai quanti giovani adolescenti foruncolosi hanno compiuto atti di violenza o di autolesionismo ascoltando i tuoi brani, contribuendo in tal modo a dannare, almeno in parte, la loro inutile anima. Ma tu, amico mio, non hai mai fatto nulla di concreto per me. Mai un gesto, una preghiera, qualcosa insomma che mi inducesse a credere nella tua fede. Buffo gioco di parole, nevvero?”. Rise e per la prima volta James fu certo che ciò che aveva dinnanzi non aveva nulla di umano.
“Dunque ora pretendo che tu mi dimostri obbedienza”.
“Come?” Aveva un pulsante cerchio alla testa e fremeva dalla voglia di concludere quella irreale conversazione.
“Uccidi qualcuno nel mio nome. Un buon vecchio sacrificio umano vecchio stile. Un atto sabbatico in piena regola. Amo le novità, ma sono così drammaticamente attaccato alle tradizioni”.
“Uccidere qualcuno? Sei pazzo”.
“No, sono il diavolo”.
“E come… quando?”.
Stava davvero pronunciando quelle parole? Un angolino ancora intatto della sua mente gridava allarmato tentando di riportare James alla realtà, ma il resto del suo Io era affascinato da quello che stava vivendo.
“Accetti allora signor Manson?”.
“Ed in cambio avrò…”.
“Tutto l’amore e la devozione del mondo”.
“Accetto”. Deglutì rumorosamente.
“Allora ascoltami, non mi piace ripetere le cose due volte. Presta attenzione e non mi deludere. Che lo show abbia inizio”.

Si svegliò l’indomani con una forte sensazione di stordimento e con una tremenda emicrania che lo costrinse a banchettare con caffè ed analgesici innaffiati da una sostenuta dose di burbon.
Verso l’una di una mattina infuocata decise di fare quattro passi per la città. Non rammentava neppure il nome dell’ennesima località di provincia che stava ospitando il Tour, e che si sarebbe in fretta dimenticata del passaggio di quella carovana di invasati che, per una notte, avevano portato una ventata di eccentricità ad animare la vetusta e consolidata routine del piccolo centro.
Camminava lentamente con le mani affondate nelle tasche ed un paio di occhiali scuri dalla montatura pesante di ottone che scintillava funesta fra i raggi obliqui del sole estivo.
Nessuno badava alla sua figura smilza e trasandata che vagava senza meta fra i banchi del mercato, che si fermava a spiare dagli angoli dei palazzi gruppetti di ragazzi e ragazze intenti ad amoreggiare o a scherzare più o meno amabilmente, forti dell’invulnerabilità della loro adolescenza.

Ad un tratto la sua attenzione fu catturata da una giovane mora che sedeva appartata su di un muretto nei pressi della fermata del bus. Aveva i lunghi capelli lisci raccolti in una coda di cavallo legata da un nastro nero, un paio di luridi jeans blu stinti e malconci che dovevano essere almeno un paio di taglie più grandi della sua ed una t-shirt nera con impressa l’effige di una croce scarlatta. La ragazza doveva far parte del gruppetto che stava allegramente dissertando sulla conclusione del campionato di Basket universitario, ma non sembrava prestare molta attenzione alla confusione che animava i suoi compagni. Aveva l’aria assente e lo sguardo perso in un punto indefinito lungo una traiettoria immaginaria dove solo lei poteva seguire il volo pindarico dei suoi pensieri.
Si avvicinò e le si sedette affianco. La giovane non lo degnò neppure di uno sguardo.
“Salve”. Le disse cordialmente. Non rispose.
Le toccò leggermente una spalla e la ragazza sobbalzò come se fosse stata punta da un’ape.
“Ma sei scemo!”, lo apostrofò con poca grazia, “chi cacchio sei?”.
Si sfilò gli auricolari dai quali rombò un’assordante assolo di chitarra elettrica.
“Ecco perché non mi sentivi” aggiunse lui sorridendo.
“E che motivo avrei di starti a sentire, vecchio?”.
(La detesto. Credo che sceglierò proprio lei) pensò.
“Bhe, per cortesia, innanzitutto, o hai paura di parlare con uno sconosciuto?”.
“Sentite il nonno com’è spiritoso”, urlò verso i ragazzi poco distanti, “questo tipo mi chiedeva se ho paura di parlare con gli sconosciuti!”.
Si levarono alte risa e qualcuno indirizzò a James qualche esplicito e volgare gesto di scherno.
“Non ho paura di parlare con gli sconosciuti bello, sono gli sconosciuti che dovrebbero averne di parlare con me”.
“Diglielo Batsy!” gridò qualcuno da dietro le loro spalle.
“Sei una tipa pericolosa, allora”.
“Lo puoi ben dire cocco. Ne vuoi una prova?”.
“E perché no. Devi essere una di quelle asociali, introverse, complicate teen ager che si stordiscono dalla mattina alla sera di metal, divorano libri e film dell’horror, e sono certe che non ci sarebbe fine migliore per i propri genitori che quella di essere le prossime vittime di Freddie Kruegher”.
“E allora? Ci trovi qualcosa da ridire?”.
“Per carità, sono esattamente il mio tipo di donna”.
“Bello se mi vuoi rimorchiare sei fuori tiro massimo…”.
“Non ho nessuna intenzione di rimorchiarti. Non una tipa dura come te. Sono convinto che gli uomini te li scegli da sola già da un paio d’anni”.
“Puoi dirlo forte… e li faccio anche stancare da un paio d’anni, tesoro”.
“Ohhhhhh!!!”.

Le urla del gruppetto si fecero più forti ed i ragazzi cominciarono ad avvicinarsi alla singolare coppia che si era formata per ascoltare meglio i toni aspri della conversazione. La cosa si stava mettendo piuttosto bene, e se Betsy avesse continuato a prendere in giro il vecchietto probabilmente ci sarebbe scappata anche una piacevole rissa. Non riuscivano proprio ad immaginare un modo migliore per concludere un noioso pomeriggio estivo.
“Ok, ma oltre a saper parlare di sesso e di morte, avresti anche il coraggio di fare qualcosa di concreto?”.
“Del tipo?”.
Si tolse gli occhiali da sole, ed estrasse dal portafogli un biglietto da visita che porse alla ragazza, che dopo averlo guardato con aria di disprezzo lanciò un gridolino strozzato:
“Ma è uno scherzo?!”chiese eccitata.
“No, mi chiamo James Manson e sono l’agente di Monster”.

Al suono di quel nome il capannello di giovani si fece ancora più dappresso ed iniziò a porre domande concitate che si accavallarono fra loro creando un imbarazzante frastuono. James levò una mano per tentare di imporre un po’ di silenzio, e la piccola folla obbedì. Dopo tutto poteva essere in ballo un incontro con uno dei loro idoli, era meglio prestare la massima attenzione.
“Stiamo cercando comparse per lo show di domani. Una delle ragazze si è infortunata dopo lo spettacolo di ieri” e fece un gesto teatrale con la mano come se stesse accendendo una sottile sigaretta. I ragazzi risero sarcasticamente.
“Ha ballato una volta di troppo con Mary…” fischi di approvazione seguirono l’affermazione dell’occhialuto skin head che l’aveva pronunciata.
“Esattamente. In conclusione abbiamo bisogno di una sostituta”.
“E tu hai pensato a me?” Un soprano non avrebbe saputo scandire meglio quelle sillabe.
“Se ti interessa..”.
“Interessarmi? Ma scherzi amico, io darei la vita per poter toccare Monster!!”.
“Bene, allora non mi ero sbagliato sul tuo conto”.
“E cosa dovrei fare… insomma io so cantare, ma…”.
“No, no tesoro, non ci siamo capiti. Mi serve una ragazza che partecipi alla messa in scena del rito sabbatico del secondo atto della performance”.
“Mitico…”.
“Il che vuol dire che sei d’accordo, giusto?”.
“Certo! Farei qualunque cosa per essere su quel palco”.
“Compreso spogliarti e fingere di essere una vittima sacrificale?”.
“Dai Betsy…non sarà la prima volta che qualcuno ammira i tuoi gioielli!” Un ragazzo con i capelli rossi ed il volto tempestato di efelidi aveva sparato quell’affermazione con la violenza di un colpo d’arma da fuoco.
Betsy scosse la testa sorridendo, niente affatto imbarazzata dal tenore delle proposte e della conversazione.
“Accetto”.
“Hey, e i tuoi che ne penseranno? Devo pormi certi scrupoli, in fin dei conti credo che tu sia ancora minorenne”.
“I miei non si accorgono nemmeno della mia presenza, sono troppo persi nei loro affari personali di carriera ed amanti. E poi ho diciassette anni e mezzo” l’orgoglio di quella rivelazione le pervase il volto di un rossore fiero. Se fosse arrivata al suo trentesimo compleanno sarebbe stata senz’altro una donna molto affascinante. Se solo ci fosse arrivata…
Si alzò calzando con cura gli occhiali da sole sul naso adunco.
“Affare fatto allora Betsy”e le tese la mano. La ragazza la strinse con gratitudine manifesta.
“Ci vediamo domani sera verso le sette nel back stage del teatro. Ti spiegherò cosa dovrai fare esattamente e ti presenterò Monster. Sarà lieto di constatare la dedizione dei suoi fans”.

Li salutò con un cenno della mano e si allontanò nella medesima direzione dalla quale era venuto.
Le urla festanti dei ragazzi alle sua spalle gli strapparono un vago sorriso.
Doveva sbrigarsi, c’era uno show da portare avanti.
La notte passò tranquilla e senza incontri. Si sorprese più volte, desto, a fissare con occhi spalancati la sua immagine riflessa nello specchio oblungo che ammiccava, lucente, di fronte al suo letto,ma nessuno si presentò a turbare il suo concitato sonno.

La mattina si alzò di buon ora. Restò immobile sotto il getto scrosciante della doccia fredda, osservando, rapito, gli strani e serpeggianti gorghi che i sottili rivoli di acqua formavano sull’anello metallico del discarico, prima di svanire per perdersi in un fiume sotterraneo e nascosto che li avrebbe inglobati come figli spersi e ritrovati.
Fece un paio di telefonate. La prima al suo agente per avvertirlo che non avrebbe rispettato le scadenze dei prossimi due concerti. Le obbiezioni di Greg gli fecero venir voglia di ringhiare, ma sbattergli il ricevitore in faccia e troncare quella sequela incoerente di ululati da cane ferito, lo fece sentire ancor più padrone della situazione.
La seconda chiamata lo fece ripiombare nella sua solita depressione di genitore inconcludente e frustrato: tentò di parlare con Melanie, ma la bambina si rifiutò di concedergli anche solo un breve saluto. La voce sterile e monotona della sua ex-moglie lo apostrofò con la grazia e la comprensione alla quale si era abituato nei trascorsi otto anni di catastrofe, ossia di matrimonio:
“Mia figlia non ha nessuna intenzione di parlare con un pazzo che si diverte a squartare bambini su un palcoscenico. Prova a cambiare vita James e forse riuscirà a vederti come un essere umano”.
Un lungo sibilo metallico pose fine per quella mattinata ai suoi sogni di una famiglia felice, o solo di famiglia.
Fece colazione in camera, ma, a dire il vero, non toccò quasi una briciola di tutto ciò che la cameriera, ammiccante ed ancheggiante come non mai, gli aveva portato.
Si stese sul letto fino quasi alle cinque e poi, messi gli abiti di scena nella solita valigetta di pelle nera, si recò a preparare lo show.
Arrivò in teatro poco dopo. Non salutò nessuno e si precipitò a sbirciare il dietro le quinte per accertarsi che la sua prescelta non avesse avuto ripensamenti dell’ultim’ora.

Betsy era lì. Indossava il medesimo paio di pantaloni troppo larghi e troppo sgualciti. Un sorriso tirato impresso a fuoco sulla faccia pallida ed un po’spaesata.
Si diresse in camerino con passo svelto. Chiuse a chiave la porta alle sue spalle. Aprì la valigia e ne estrasse il contenuto. Si spogliò in fretta. Si calzò con cura i pantaloni neri e la canottiera rosso sangue, si aggiustò la parrucca stando attento a non rovinare la piega dei ricci che aveva messo a posto con dovizia la sera precedente, infilò le lenti a contatto azzurre e si accinse a dipingersi le labbra di nero. Quando ebbe terminato Monster lo fissava immobile ed inespressivo come un boia in attesa di compiere giustizia.

Per un attimo l’irrealtà dell’apparizione di cui era stato testimone la notte precedente, e l’atrocità di ciò che si accingeva a compiere lo assalì con tutto il peso del male che pervade il mondo.
Si portò le mani alla faccia, e con un gesto di stizza si levò il rossetto con un rapido fendente del polso, tracciando un lungo solco nero lucido sulla pelle diafana.
“Cosa sto facendo…”.
Ma poi il volto minuto di Melanie che lo guardava, atterrita, nascondendosi dietro le gambe abbronzate della madre per difendersi da lui, dal mostro che mangia i bambini, si proiettò violenta e reale di fronte ai suoi occhi offuscati dalle lacrime.
Prese il rossetto e ritoccò ciò che aveva appena guastato.
Dopo tutto c’era uno show da mandare avanti.

Betsy si era seduta sugli scalini del retro palco e guardava attonita il febbrile via vai di tecnici delle luci, del suono, di ragazze in reggicalze che cercavano i resti dei loro costumi sotto gli occhi incuranti dei trova robe che ormai adusi a certi spettacoli, sembravano non notarle neppure.
“Sei tu la ragazza che ha mandato James?”. Anche la sua voce era diversa, più roca, più profonda, malefica e affascinante.
Betsy alzò gli occhi e assenti con un gesto leggero del capo.
“Io sono Monster, e tu chi sei?”.
“B-Betsy…Betsy Miller”.
Si strinsero la mano con forza.
“Bene signorina Miller, mi aspettavo che fossi un po’ più graziosa, ma in tempo di carestia non badiamo a certi particolari”.
“Bhe io… in genere sono più carina di così, ma sono un po’ ecco… nervosa e s…”.
“Spaventata, lo so, spavento la gente per mestiere. Seguimi, devo spiegarti per cosa mi servi”.

Lui avanzò con passo spedito verso il palco, lei lo seguì come un cagnolino obbediente.
“Right, a metà del secondo tempo dello spettacolo entrerà una sorta di tavolo coperto da un drappo nero…”.
“Lo so ero fra il pubblico due sere fa…sei stato eccezionale…”.
“Meraviglioso e raccapricciante. Lascia stare i complimenti e ascolta. Dunque, quando entra il tavolo tu fa il tuo ingresso dall’altra parte del palco” ed indicò la parte opposta delle quinte, da dove una ballerina li stava osservando chiedendosi con rammarico ed astio perché mai Monster avesse rimpiazzato lei, abile spogliarellista di professione, con quella insipida bambolina dal volto sparuto.
“Avanzi fino al bordo del tavolo, mi fissi e ti sfili la camicetta. Poi ti giri verso il pubblico, in modo che tutti possano osservare bene le tue grazie, e ti sdrai sul tavolo chiudendo gli occhi. Io mi avvicinerò dopo pochi minuti e urlerò qualcosa di incomprensibile verso di te. Non ti preoccupare di capire cosa dico perché non lo so neppure io, lo invento ogni sera…”
La ragazza sorrise imbarazzata.
“Fatto questo ti trafiggerò con un coltello dalla lama retrattile da cui sgorgheranno fiumi di inchiostro rosso. Tu resterai immobile e con gli occhi ben chiusi. Ricordati solo di spalancare le braccia non appena ti colpisco e di lasciarle immobili lungo i fianchi finché non ti avranno portata via ancora stesa sul tavolo. Non devi muoverti per nessuna ragione al mondo, non c’è nulla di più ridicolo di un cadavere che apre gli occhi per vedere che effetto ha sortito la sua esibizione sul pubblico. Siamo professionisti qui, vendiamo paura e la paura è una cosa seria. Sei certa di rammentare tutto quello che ti ho detto?”
“Sì”.
“Ok, adesso sparisci e fatti dare il costume da qualcuno. Ci si vede fra circa tre ore sul palco, e niente errori. Se sbagli ti trafiggo con qualcosa di non retrattile. Siamo intesi?”.
“Certo Monster, farei qualunque cosa per te”.
“Lo so” le strizzò l’occhio e svanì dietro il palco.

Lo show stava per avere inizio.
Si accorse di non essere particolarmente nervoso mentre si esibiva per la solita moltitudine di decerebrati urlanti.
La voce gli resse bene per tutte le prime canzoni, cosa che non gli accadeva da un paio d’anni. Era carico e tagliente come agli esordi ed anche la band sembrava aver notato questa sua ritrovata presenza di spirito, non lesinando bis e acrobazie di accordi urlati e sofferti sopra le Fender quasi fumanti.

L’intervallo durò meno del solito. Il pubblico era scatenato e non aveva nessuna intenzione di attendere che il suo mito riprendesse fiato per più di dieci minuti.
Monster li possedeva. Se ne nutriva. Li amava e li odiava con ogni sfumatura della voce, con ogni goccia di sudore, con ogni rantolo di finta rabbia. E loro erano suoi. Volutamente schiavi di un’immagine senza sostanza, di una bugia sui tacchi alti, di un raggio d’ombra che offuscava per lo spazio di una canzone la monotonia a colori delle loro vite.

Il tavolo coperto dal drappo nero fece il suo ingresso.
James provò un piacevole senso d’eccitazione.
Betsy entrò pochi istanti dopo, adorabile con la camicetta bianca ed il gonnelino da collegiale blu con le pieghe che le scivolavano appena sulla superficie dei polpacci.
Avanzò come una vestale. Si fermò esattamente all’angolo del blasfemo altare e si voltò verso la platea cominciando a slacciarsi uno ad uno i bottoni della camicia. I capelli fluenti e sciolti sulle spalle le incorniciavano un volto fiero e spavaldo. Mostrò i seni ritti ed ancora acerbi ad una folla accaldata ed eccitata. Si sdraiò con il torace che le si alzava ed abbassava senza controllo. Chiuse gli occhi ed attese.

Monster si dileguò dietro le quinte. Estrasse dalla borsa di pelle un lungo coltello per affettare il pane che aveva sottratto dalla cucina dell’albergo, e si avventò su di lei senza profferir verbo.
La lama le squarciò il petto dalla gola fino all’inguine e la ragazza sbarrò gli occhi e lanciò un grido strozzato, mentre un rivolo di sangue vermiglio le affiorava dalle labbra e scivolava lungo la guancia, rapido come era stata la sua vita, un battito d’ali e nulla più.

Nessuno si accorse di nulla. I tecnici audio lasciarono la loro postazione ed entrarono tentando di passare inosservati. Spinsero il tavolo dietro le quinte e lo abbandonarono lì.
La musica continuò senza interruzioni.
La folla si scatenò in un delirio orgiastico.
Una ragazza in jeans irruppe sul palco gridando.
“E’ morta! Fermi… Smettete di suonare! E’ morta vi dico… Cristo fermatevi!”.

Il batterista fu il primo a riporre le bacchette. Le chitarre si unirono al silenzio insieme al basso. Monster si voltò adirato verso la giovane in pantaloni che continuava a singhiozzare e ad indicare un punto alle sue spalle con movimenti ritmici e meccanici.

“Interrompi lo spettacolo James, temo sia accaduto un guaio”.
“Io non interrompo niente! Io sono il Dio del rock e non mi interessa la morte di nessuno se non la mia. Ricominciate a suonare! Subito!”.

Un’agente in divisa, accorso dall’entrata del teatro, si affacciò:
“Sospenda lo spettacolo. Qui c’è una ragazza morta”.

La folla sprofondò in una sorta di curioso ed attento silenzio:
“Monster ha ucciso la ragazza?”.
“Ma quale?”
Voci anonime sparse nell’aria.
“Quella che si è spogliata!”.
“Monster ha ucciso quella ragazza? Fico!”.

James fissò il poliziotto con piglio di sfida, poi gettò il microfono sul palco e seguì l’uomo.
La folla non smise un attimo di incitare il suo idolo.
“MONSTER…MONSTER…MONSTER…MONSTER”.
Lo spettacolo era venuto bene, dopo tutto.

L’interrogatorio fu lungo e sfiancante. Non vi era dubbio alcuno che la giovane fosse stata accoltellata e non vi era dubbio alcuno che l’arma del delitto giaceva con le impronte digitali di James Edgar Manson in un angolo del suo camerino, dove i tecnici l’avevano riposta dopo l'”esecuzione” del numero. E non vi era dubbio alcuno che James Edgar Manson era l’autore del delitto, confermato dalla testimonianza di almeno un migliaio di persone.
Non si difese.
Si limitò a tacere e a chiedere di entrare nel suo camerino prima di essere portato via in manette.

L’agente lo scortò fino alla stanza. La ispezionò a fondo per accertarsi che non vi fossero possibili vie di fuga e quindi lo lasciò solo mettendosi a piantonare la porta.
James si sedette di fronte allo specchio. Si sfilò la parrucca e quando vide che l’immagine riflessa conservava i lunghi capelli neri parlò:
“Ho fatto ciò che mi hai chiesto”.
“Hai fatto molto di più. Hai convinto quei ragazzi che la morte fa spettacolo e li hai avvicinati ancor di più a me. Complimenti Monster, mi hai sorpreso”.
“Mi vogliono arrestare”.
“Lo so”.
“Non possono!”.
“Perché? Hai assassinato quella poveretta di fronte ed un numero imbarazzante di testimoni! Non c’è ragione per la quale ti lascino andare”.
“Ma che stai dicendo? Fra noi esisteva un patto!”.
“E tu credi che il Diavolo rispetti i patti? Il Diavolo tenta ed infrange, gioca e vince. Non c’è regola che non muti o vincolo che non possa violare”.
“Tu mi avevi promesso che… che… mia figlia…”.
“Tua figlia non ti vuole e non ti vorrà mai. L’amore è l’unica cosa che non posso comprare e tu sei stato tanto ingenuo da pensare che Io, il Signore delle tenebre, Mefisto per gli amici, avrebbe ricongiunto un padre alla sua tenera pargola? Disgustoso. Sei così puerile, quasi puro che mi ispiri tenerezza”.
“Ma allora se tutto è una menzogna, perché? Perché mi hai fatto questo?”.
“Per gioco. Per vedere se l’idolo nero del rock era veramente un mio seguace. L’ho fatto perché eri in debito con me ed era ora che saldassi il conto”.
“Non capisco”.
“Hai costruito la tua fama, la tua “carriera” su di me. Mi hai nominato, invocato, osannato, per poi schernirmi in privato e deridere i miei seguaci. Com’è che li chiamavi? Aspetta, aspetta, credo di rammentarlo… a sì! Imbecilli lobotomizzati, piccoli mostri senza padrone, devoti del nulla, sciocchi creduloni senza speranza. No, mio caro. Non si scherza con il Maligno”.
“Ma ora sai che anch’io credo in te e ti sono devoto. Ora hai la mia anima”.
“La tua anima è sempre stata mia. O pensi che solo gli assassini e gli stupratori siano di mia pertinenza? Tu hai deviato e traviato i sogni di una generazione di adolescenti indicandogli la giusta via per arrivare a me. Li hai convinti della vacuità della bontà, della mendacità della speranza, dell’assenza di Dio, della irragionevolezza dell’amore e della beatitudine che solo gli istinti possono dare. Hai contribuito a risvegliare la bestia che alberga in loro. Sei stato uno dei miei migliori emissari. La tua anima mi spetta”.
“Ora ho capito”.
Tacque.
“Tu non esisti. Sei il seme della mia follia”.

L’immagine si dileguò e James si trovò a fissare la buffa parodia di un Monster semi struccato e con ispidi e sudati capelli a spazzola, che lo fissava con sguardo assente dallo specchio contornato di luci.
Aprì il cassetto. Estrasse il rasoio e sfilò la lama.
Entrò nel piccolo bagno. Aprì l’acqua calda e turò il lavabo.
Due colpi.
Precisi, profondi, fecero zampillare fiotti di sangue dai suoi polsi.
Li immerse nel liquido bollente e chiuse gli occhi.
“Ti voglio bene Melanie”.

I suoni si fecero lontani, le luci sbiadite, il battito del cuore aritmico e soffocato come il suo respiro.
Quando l’agente entrò nella stanza insospettito dal silenzio e dall’eccessivo tempo trascorso, James Edgar Manson, Monster, giaceva esanime in una pozza di sangue.
Sorrideva.
Libero.

Vampire Gennaio 2004 (ladyofvampires)

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