Equilibrio Profondo

Racconti


– Mancano dieci minuti, tra poco arrivo. –
L’uomo scorre distrattamente l’orologio da polso.
– Ma sì, arriveremo in tempo, come sempre… –
L’ometto buffo si dimostra seccato, intanto volge lo sguardo ai colleghi di lavoro, per vedere se lo guardano.
Parla in tono alto per attirare la loro attenzione. Ci riesce. Il collega di fianco a lui osserva, quasi non ne può fare a meno.
-…d’accordo…ok…ciao.-
Chiude la conversazione e si riavvia i capelli radi come se uno sforzo enorme glieli avesse scompigliati. Come se ci fosse una gran chioma da spettinare.
Alza gli occhietti piccoli e lucidi in direzione del collega e abbozza un sorriso. E’ sudato, nonostante l’aria condizionata permea ossessivamente l’ufficio. L’altro sorride di rimando, ma non è interessato a fare domande e l’uomo se ne dispiace.
Lui deve essere notato, per forza.
– Le mogli! –
Esclama, quasi obbligando il compagno di lavoro ad interessarsi a lui.
– Già. –
E’ tutto quello che l’altro risponde.
Finge di avere da fare, anche se sta arrivando l’ora di chiusura dello studio. Abbassa lo sguardo in direzione di un fascicolo qualunque che figura di sfogliare.
– Come se, dopo dieci anni, non sapesse a che ora esco dal lavoro! –
L’uomo sbotta, ma senza collera. E’ preoccupato per l’altro, per il fatto che non voglia mai lasciarsi coinvolgere in un discorso. Tuttavia l’altro non vuole saperne di comunicare con lui.
– Sono tutte uguali… –
Taglia corto, non gli piace quel tizio insignificante. In verità, non piace a nessuno, ma lavora lì e bisogna trattarlo bene.
– Però, non la cambierei con nessuno. Difetti a parte, è ancora la mia cuccioletta… –
L’omino non demorde. Sorride nuovamente, mostrando i denti accavallati in una bocca porcina.
Il collaboratore lo guarda, con sdegno maggiore, cercando di non dare a vedere tutto il disprezzo che avverte per un’affermazione adolescenziale che poco si accorda con il suo carattere.
– Meglio così! –
Risponde, sommario, ringraziando Dio perché intanto, è finita un’altra misera giornata di lavoro. Raccatta in fretta la borsa dei documenti e s’infila nell’ascensore, senza procrastinare oltre un dialogo infelice, che gli da noia. Non saluta neppure. Non è una novità. L’uomo buffo scuote il capo in segno di rassegnazione e cede le armi. Comunque, non ne caverà nulla. Lo vede allontanarsi con la fretta di chi è inseguito.  E’ agitato, scosso. Pigia la ‘T’ sul pannello alla sua destra ed attende la
libertà. Cinque piani e poi sarà fuori.
Esamina, attento, i contrassegni numerici rossi posti sopra l’entrata dell’elevatore. Cinque, quattro, tre, due, uno… un piccolo sobbalzo: piano terra, finalmente. Attraversa l’atrio sbrigativamente, rischiando di slittare con le scarpe dalla suola in cuoio.
Vede l’uscita e capta la luce che ancora non s’è ritirata dal giorno. Abituato ai neon, strizza gli occhi come se si fosse appena svegliato.
Le porte di vetro con fotocellula si spalancano al suo passaggio.
Aria.
Aria pura.
Raggiunge il parcheggio senza guardarsi attorno: non vuole essere fermato da nessuno. Non ha voglia di parlare, non più.
Un bip sonoro precede l’apertura a scatto dell’auto.
Miraggio.
Sale, sistemando a casaccio la borsa sui sedili posteriori. Chiude subito lo sportello ed avvia il motore e la retromarcia per instradarsi verso casa.
E’ stufo, non ha più voglia di tornare in quel posto a lavorare. Negli ultimi tempi, non ha più voglia di fare niente.
Tutto quello che un tempo era appagamento, si trasforma in perdita di tempo, e lui non se lo può permettere.
Sa di esagerare, in fondo, ha un buono stipendio, ore di straordinario ben pagate che gli consentono piccoli lussi e bei regali per Silvia.
Già, Silvia…
Forse è per lei che non ha più voglia di fare niente, neppure di guadagnarsi il pane quotidiano.
Silvia si è presa ogni cosa di lui, entrandogli nell’anima, invadendo i pensieri, i giudizi, convinzioni un tempo inossidabili. Lui si sente inadeguato, accanto alla sua bellezza. Dice a se stesso che Silvia poteva avere molto di più, anche se lei afferma il contrario.
– Io ti amo. –
Gli dice, sorridendo.
– Hai sempre queste paure… –
Aggiunge.
Sì, lui ha paura di perderla ed ogni attimo di lontananza e pregno d’angosciose ansie.
– Non essere sciocco! –
Gli dice, ancora.
– Sono qui, dove vuoi che vada? –
E’ così bella. Non può credere di essere stato tanto fortunato.
– Sei tutto per me… –
Le sussurra, ogni mattino.
– Anche tu, amore. –
Risponde, senza privarlo mai di un bacio.
Quasi può avvertire il tocco amabile della sua bocca contro la guancia.
– E se ti sentissi troppo sola? –
Lei ride.
Silvia mostra gioia in maniera unica e lui non sa mai se lo sta facendo con tenerezza o se lo sta ascrivendo a biasimo.
Non lo capirà mai. E’ un’altra inquietante paura che non gli permette di vivere…
– Non mi sento sola, perché ci sei tu, anche quando sei distante. –
Replica, carezzandogli la gola.
Il cuore si rabbonisce per un attimo, ma quando la vede, mentre si agghinda per
uscire con qualche amica, la mente sragiona.
“Forse ha un altro, oppure potrebbe lasciarmi perché la vita con me non è quella che vorrebbe…”
Le rappresentazioni mentali non si allontanano mai dall’afflizione e la vita perde significato, se Silvia non è con lui.
E’ troppo importante quella donna, sa che non può perderla, ne morirebbe. Estrae dalla tasca il telefonino e compone il numero di casa.
Il traffico scorre lento, teme che la donna si possa preoccupare per il piccolo ritardo.
“Sarò mai, tranquillo?”
Si domanda. Ma conosce la risposta.
Il cellulare scivola dalla mano sudata e l’uomo lo ferma piegando di lato la testa.
Tuut…tuut…tuut.
Silvia non risponde! Dov’è andata?
“Forse ho sbagliato numero.”
Controlla ciò che ha digitato sul display, ma non ci sono errori. Richiama, non può farne a meno. Altra piccola attesa per la connessione.
Tuut…tuut…tuut.
No, Silvia non è in casa.
E’ strano, lo aspetta sempre a braccia aperte. Lui brama con nervosismo l’ora di cena per stare con lei ed è sempre accontentato.
Prova a comporre il numero del suo cellulare, ma non c’è nessuno.
Terrore!
“Silvia…”
Dopo un po’ d’attesa, riesce ad uscire dalla Statale e ad immettersi nella Provinciale per l’agognato ritorno. La facoltà di pensare si muove liberamente in mille inganni dei sensi e l’apprensione cresce nel petto impedendogli di respirare.
“Sono in ritardo, amore. Perdonami…”
Vorrebbe richiamare casa, ma teme nuovamente il silenzio.
“Coraggio, ci sei, quasi!”
L’uomo può vedere la villetta bianca, isolata dalle altre.
“Magari, stai prendendo l’ultimo sole, seduta sull’amaca in giardino… sì, forse sei lì e non senti il telefono squillare.”
Pochi metri ed è giunto nel vialetto di casa.
Posteggia l’auto dinanzi al garage e scende.
– Silvia? –
Non ha tempo neppure per raccogliere i documenti dalla borsa, che si è aperta in macchina ed ha seminato i conti dei clienti sul tappetino.
– Silvia, amore, dove sei? –
Ansia.
Perché non gli risponde?
L’uomo vede l’amaca vuota in giardino.
– Silvia? –
Insiste, mentre la salivazione viene meno. Entra in casa e si guarda attorno. Tutto è in compostezza, come sempre. Silvia ha il pallino dell’ordine e della pulizia.
– Silvia… –
Ma non c’è risposta. Attraversa il salone e giunge alle scale per accedere al piano superiore.
– Silvia, sono qui! –
“Dove sei andata?”
La porta della camera da letto è chiusa a chiave. L’uomo prova a premere più volte la maniglia, ma non gli riesce d’aprirla.
“Sei con un altro!”
Non potrebbe essere altrimenti.
– Silvia, apri! –
Il tono della voce si fa aspro, collerico e non ammette altro silenzio come risposta.
– Apri, cazzo! –
Le mani seguitano a premere la maniglia, ma non è possibile entrare in quella stanza.
– Butto giù la porta! Giuro su Dio che spacco l’uscio! –
Urla.
Le minacce sono inutili, perché nessuno risponde. In preda alla follia, l’uomo inizia a prendere a spallate il legno.
– Ti avevo avvertito! –
Le intimidazioni si fanno concrete. Nonostante la compattezza del legname, la serratura cede all’ennesimo calcio e la porta si spalanca. Un filo di luce illumina la stanza, ma gli occhi non distinguono nulla.  L’uomo deglutisce, amaro. Si addentra con avvedutezza, cercando di mettere a fuoco ogni particolare del luogo.
– Silvia? –
Ora la voce è un sottile bisbiglio. La paura non consente al fiato di essere inspirato ed espirato. Gli occhi si abituano alla penombra e distinguono un’immagine, seduta davanti alla finestra. E’ lei, riconosce i capelli biondi che ricadono sulle spalle leggermente incurvate.
– Amore, sei qui? –
“Sì, sei qui con me.”
– Oh, Silvia, perdonami, come ho potuto? –
Si avvicina alla sagoma e vi si pone dinanzi.
– Amore, non riesco mai a farne una giusta, non è vero? –
Lei non risponde.
– Sei arrabbiata con me? Ne avresti tutte le ragioni, se così fosse, ma so che mi perdonerai. Lo fai sempre. –
L’uomo si genuflette e posa la testa sulle gambe della donna.
– Ti sei sentita sola? –
Carezza amabilmente le mani rinsecchite di Silvia e alza gli occhi in direzione di uno sguardo che non c’è più.
– Cara, sai, a volte credo che tutto sia come un tempo, quando passavo ore ed ore in attesa di tornare da te. Ricordi? Vivevo attimi impossibili nell’attesa di rivederti. –
Le mani sfiorano i chiodi che immobilizzano i polsi della donna. Non ci sono esitazioni.
– E’ sempre stata tanta, la paura di perderti, troppa… Anche ora, che sei qui con me per sempre, mi sembra di saggiare nuovamente l’angoscia di quegli istanti. Ci sono giorni in cui m’illudo che tutto possa portarti lontano, anche se so che non è più possibile.-
L’uomo si alza e, delicatamente, porta il busto della donna contro lo schienale della poltrona di legno, fino a rimetterlo nella posizione originale, dove l’aveva sistemata una sera di qualche mese prima.
– Sono uno stupido. Dove potresti andare? Non puoi più stare lontano da me, così come io non sono mai riuscito a stare distante da te.-
Silvia è lì, ad attenderlo ogni sera, per tutte le ore vespertine ancora da venire.
Non si abbellisce più, se non è lui a consentirlo. Non reagisce più alle battute di un uomo che l’amava troppo o forse troppo poco.
Silvia è una bambola di pezza.
Un cadavere imbalsamato che non ha facoltà di fare niente neppure d’imputridirsi. Non è viva, non è morta. Silvia non è nulla, a parte la presenza costante e necessaria nella vita di un uomo che è impazzito per lei, per i suoi lunghi capelli che adesso si staccano dal cranio. Silvia non ha più la pelle d’avorio, ma avvizzita. Non ha più gli occhi verdi, ma chiusi per sempre. Non guarderà più il mondo, non vedrà più inezia. Non vedrà neppure le lacrime di un folle che sa di averla comunque persa per sempre.
– Non mi lascerai mai, vero? –
Chiede.
“No, amore, non ti lascerò mai, come potrei?”
L’uomo piange, ma non di contentezza.
Sa che non è di Silvia, la voce che ascolta.
– Grazie, cara. –
Si china nuovamente ai suoi piedi. Accoccola la testa sul grambo della donna sfidando l’odore di marcio e muffa, dandosi false speranze che sia ancora quello di Guerlain, che aveva contribuito a dare una caratteristica in più alla personalità di un amore troppo grande da gestire.
“Stai tranquillo, non ti lascerò…”
– No, Silvia, tu non mi lascerai mai. Lo so. –

Tiziana Paghini (Demetra) korovabar.it 26.07.2006

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