Ed io con lei

Racconti


Le tenebre, qui, sono nere. Nere come l’ossidiana.
Fra le pareti della cripta il mio respiro risuona come un rantolo e si mescola con quello dei defunti. Odo le giunture della bare scricchiolare, qualche volta. L’argento della luna brilla fra le sbarre del piccolo cancello d’ingresso della cripta.
La chiave è affondata nell’oscurità. Non ho idea di dove si trovi. Ed io sono qua, accovacciato in un cantuccio ricoperto di licheni sanguinanti d’umidità. Se chiudo gli occhi non cambia molto. L’oscurità c’è comunque. Ma quando lo faccio, due luci cremisi rilucono attraverso lo spiraglio di una bara che sembra aprirsi in un punto alto ed indefinito della cripta.
Poche ore fa, tendendo una mano nel buio, le mie dita avevano sfiorato i petali di un fiore ancestrale ed appassito, retto ancora da pochi atomi di vita.
Sono qui, nella tomba della mia famiglia. I miei cari mi stanno vicini, – ma non dicono nulla – uno sopra l’altro, in ambo le pareti, giacenti nei loro comodi letti.

Sento una goccia calda – caldissima – piombarmi sulla testa. Alzo lo sguardo. Avverto un movimento in cima alla cripta. Quattro zampe muoversi per un sol istante. Un sol istante di terrore e perdo i sensi.
Ed in quelle che credo siano state un paio d’ore di deliquio, l’unica percezione onirica è stata quella di due enormi ali che mi avvolgevano. Sentivo le piume nere – perché tutto è nero, nell’oscurità come l’ossidiana – sfiorarmi i lati del viso in una eterea carezza.

Adesso che mi sono destato, non sono più le piume a lambire la pelle del mio viso, ma una lingua pseudo-umana viscida e stillante. Immagino, anzi, sono sicuro, che un morto si è risvegliato con me ed ora mi sta cullando. Cullando a modo suo. Però penso anche che non mi sia svegliato del tutto. E quindi, senza alcuna inibizione, inizio a leccare la lingua ogniqualvolta che questa, completato il giro sulla mia faccia, ritorna sulle mie labbra bollenti di un’emozione intermedia fra la paura ed il desiderio. Tanto è solo un sogno, mi dico.
E questo sogno poi si dissolve improvvisamente.
Ho comunque ancora sui miei lineamenti la sensazione delle gocce di saliva. Tuttavia, non appena mi porto le mani al viso, i miei polpastrelli non sentono che la pelle e null’altro.

L’impressione di bagnato sul volto si stempera nel buio. Dovrei avere paura, penserete. E invece no. Non provo niente di tutto questo. Mi alzo in piedi usando come sostegno una bara. Salgo poi la piccola, rudimentale e stretta scalinata che conduce al minuscolo cancello d’ingresso, quasi infossato nel terreno. Intendo guardare più da vicino la luna e le nuvole che la avvolgono. Mancano pochi gradini quando alcune dita forti e sottili mi afferrano la caviglia. Mi strattonano ed io cado giù, da un lato della scalinata, che è priva di ringhiera.
Tonfo su un manto di corpi nudi. Tra questi c’è quello di una donna. Odo il suo respiro. È di fronte a me, inginocchiata. Dieci mani prendono a spogliarmi. Non oppongo alcuna resistenza. Fino a pochi minuti fa era molto freddo, dentro la cripta. Ma adesso c’è il suo corpo, che mi scalda e mi consuma lentamente. E gli altri si limitano a guardare nel buio, intorno a noi.

Non è una donna come tutte le altre. È qualcosa di più. Forse una dea. La dea dell’eterno sonno. Ci troviamo nel sottoscala. Qui è più oscuro che mai. Sono seduto su un manto di corpi vivi. Essi sono dappertutto. E lei su di me. Mi sta dominando silenziosamente. Ogni tanto mi sussurra il suo nome all’orecchio, ed io non riesco mai a comprenderlo per quanto strano ed impronunciabile sia.

Le passo le mani sulla schiena, su e giù, con passione. Poi le prendo i seni e le strizzo dolcemente i capezzoli. Questa volta si accosta al mio orecchio e mi sussurra il mio nome diluendo la voce in un gemito. Incomincia allora a cavalcarmi con più foga. E la mia passione esplode subito, secernendo in lei tutta la mia libidine. Lei mi stringe in un abbraccio così dirompente che sento quasi le nostre membra fondersi, inglobarsi. Nessuna, nel corso della mia vita, mi ha amato sino a questo punto. Nessun essere umano ne sarebbe capace. Ci abbandoniamo sul manto di corpi. Mani gibbose e dita artigliate accarezzano spasmodicamente la nostra pelle, graffiandola, talvolta. Io sono stremato, mentre lei, dopo pochi minuti, riprende a dominarmi. Da parte mia non sento più nulla. Ma mi piace percepire nelle tenebre la sua presenza su di me. E sapere che a farla impazzire sono solo io, e non anche tutte quelle mani che continuano a palpeggiarla.

Nella stanchezza successiva all’amplesso, mi addormento – forse questa volta realmente. Mentre chiudo gli occhi – il che, in un certo senso, non comporta alcun cambiamento – lei continua a godere della mia carne.

Quando mi risveglio, l’oscurità non è più quella della cripta, ma quella di una bara. Una bara abbastanza grande da contenere due persone. Tastandomi attorno, percepisco due corpi. Il mio e quello di lei. Sta dormendo. Siamo ancora uniti. Ma questa volta è diverso. Io le sto sopra. Il suo è un sonno misterioso, anormale. Non respira.

Mi avvedo con sorpresa che neanche io sto respirando. Non capisco alcunché. Eppure non ho paura. In qualche modo mi piace. È una cosa nuova. Che forse durerà per sempre.
Mi adagio su di lei, facendo aderire il mio corpo sul suo. Al che provo sul mio petto la sgradevole percezione di un qualcosa di freddo e metallico. Mi scosto appena, le passo la mia mano nell’incavo fra i seni. Lì, appesa ad una catenina, c’è una chiave. La chiave del cancello della cripta. In quel momento lei inizia a respirare. Si è destata. Mi scompiglia i capelli in un moto affettuoso e mi bacia il viso. La sento sorridere. Se non sogghignare dolcemente. Mi adagio di nuovo su di lei, che nel frattempo mi passa le mani lungo i fianchi, come per accarezzarmi interamente.

Tiro un sospiro. Lei sogghigna ancora. Mi schiocca poi un bacio.
E precipita nel sonno. Di nuovo. Ed io con lei.

Marco Mushroom novembre 2006

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