Che sia la giornata giusta?

Racconti


Il Pincio all’alba. Spettacolo bellissimo. Indescrivibile. A meno di non voler cadere nella retorica e nell’ovvio. Affacciarsi a quello che non a caso è chiamato “il belvedere”, è diventato quasi un rito purificatorio, un modo del tutto personale di ripulire la sua coscienza cosa di cui oggi, più di tutte le altre volte, ha particolarmente bisogno. Inspira l’aria e la rigetta con una frequenza doppia rispetto al normale mentre dà uno sguardo su Piazza del Popolo e poi, allargando la visuale, va alla ricerca della parte superiore della “torta” in cui non pochi riconoscono il Campidoglio.
E quasi uno stato d’ansia lo assale come ogni volta finché, indirizzato bene lo sguardo, non riesce a trovare quel che cerca. Quando finalmente ha individuato l’obiettivo, però, non se lo gode neanche un attimo che subito va alla ricerca del successivo. E questa mattina la sua agitazione è ben più alta: comprensibile, se potessimo farci raccontare da egli stesso ciò che ha appreso da uno di quelli con cui ha appena finito di giocare a biliardo.
Proprio poco prima di arrivare qui, in questo bellissimo posto, infatti, ha saputo della sorte che si è riservata uno sei suoi “compagni di tavolo” in una delle nottate di gioco di qualche giorno prima: impiccato al ferro di una grata per finestra. Come se l’avesse ucciso lui stesso… e quell’assegno in tasca – che ancora non si è deciso a cambiare – adesso gli pesa molto di più di tutte quelle monetine che occorrerebbero per arrivare alla cifra che sta scritta sopra.
C e n t o m i l i o n i d i l i r e
sono una cifra fantastica da possedere, specialmente se ottenuta giocando una partita a carte e, di fatto, senza neanche troppo faticare. Tutti per lui, anche se ha dovuto tradire l’accordo previsto dal complotto.
Avrebbe dovuto tenersi lontano da quel tavolo e da quel maledetto mazzo di carte. È ciò che ha sempre cercato di fare, riuscendoci, almeno fino a quella maledetta notte. Non avrebbe dovuto dare retta alle insistenze e sedersi a partecipare a quell’imbroglio… Soldi facili, gli ha detto.
«Un pollo da spennare che ha tanti soldi, che gliene portiamo via un po’, cosa vuoi che possa significare? Giochiamo come sappiamo con il mazzo truccato e ne usciamo vincenti.»
Ed ora il pollo ha il collo tirato da una corda appesa ad un ferro e lui ne ha stretto il nodo. Pensa alla disperazione della moglie e delle due sue bambine e allora riprende ad inspirare l’aria e a rigettarla in modo spasmodico, mentre il vento gli schiaffeggia le guance, quasi a volerlo punire per non aver saputo resistere a quella tentazione che è causa, adesso, di tanto male.
«Filippo Dacrosta, ovunque tu sia, adesso… Perdonami.»
D’impulso, allora, mette le mani in tasca prendendo quel sottile foglio di carta, lo guarda per l’ultima volta e strappandolo in due parti, lo getta via. I due pezzi trovatisi a volare nell’aria, procedono per un po’ appaiati come ali di farfalla finché, separatisi definitivamente, si disperdono dove il suo sguardo non può più arrivare. E pagherà per questo. Ne è consapevole ed è pronto ad affrontare tutte le conseguenze di quel gesto. Gli “amici”, i “compari”, non rinunceranno tanto facilmente alle loro parti che adesso, insieme alla sua, starnno svolazzando sui marciapiedi di via Cola di Rienzo…
Vince Forthoot – è questo il nome con cui si presenta, ma si capisce bene che è italiano, forse del meridione – è un giocatore di quelli professionisti capace di vincite favolose ma anche di grosse perdite che, in una sola nottata e come si potrebbe dire con espressione colorita, lo lasciano letteralmente in mutande. Non è un’esagerazione. È la semplice verità. Egli stesso si diverte a raccontare, ancora a distanza di quattro anni, come una mattina d’inverno dovette ritirarsi a casa con indosso soltanto le mutande, appunto, e percorrendo a piedi la lunga distanza tra la bisca e la sua abitazione.
Eh già la bisca: praticamente la sua seconda casa.
La frequentava già da bambino quando suo padre lo portava con sé, ad imparare il mestiere, gli diceva. E così se ne stava intere notti a guardare quegli uomini che in una stanza sul retro di una sala giochi, si sfidavano a poker con poste altissime che suo padre, di certo, non poteva permettersi. Eppure continuava a giocare.
E a perdere.
Più di una volta Vince aveva dovuto aiutarlo a rialzarsi da terra perché il creditore di turno, stanco di aspettare i soldi della sua vincita, si era deciso a convincerlo a pagare con una sonora pestata. Le ferite diventavano presto un ricordo, però, quando la smania di riprendere in mano le carte pervadeva anima e mente e quel padre incosciente e dannato si ritrovava ancora una volta a barare ad un tavolo da gioco.
«Ragazzì, con le carte ci devi saper fare» gli diceva il padre.
«Le carte ti sono amiche ma sanno anche essere traditrici: non è così che accade con i migliori amici, del resto? Sono femmine ammalianti che seducono fino a farti prigioniero del loro fascino costringendoti ad inseguirle per tutta una serata, promettendoti il premio ma poi… poi, come tutte le femmine peccaminose prendono quanto cercano e, ancora voglioso e deluso, ti abbandonano allo sconforto più triste».
E Vince sapeva bene come le carte avessero ridotto il genitore: incapace di resistere al vizio, seppure barando a sua volta, non era in grado di superare in imbrogli i propri avversari di “gioco” e spesso finiva per uscire pesantemente sconfitto da qualche nottata trascorsa ad inseguire, inutilmente, una donna di cuori. Da qui a ricorrere all’alcool – bottiglia dopo bottiglia – come rimedio per addomesticare la coscienza, il passo fu più breve di quanto si possa credere, così che il padre di Vince rincasando a casa all’alba e decidendo che era quello il momento in cui la moglie dovesse soddisfare i suoi più animaleschi istinti, abusava di lei in modo violento finendo, più volte, per lasciarla sul letto esanime e ricoperta di lividi.
Ecco perché Vince non aveva mai voluto avvicinarsi al gioco delle carte – almeno fino a quella tragica notte – a quel vizio che aveva distrutto una famiglia quando lui era poco più che quattordicenne e si ritrovò rinchiuso in un istituto per minori fino a quando la sua futura famiglia non lo adottò… e questa è un’altra storia.
Il fuoco del vizio si era già impossessato di lui, però, e come una febbre altamente infettiva si era trasmessa dal padre a pervadere l’anima di quel ragazzo che, da lì a poco, avrebbe cominciato a “puntare” su qualsiasi evento fosse possibile nella sala scommesse che frequentava.
E da lì a passare alla bisca, il passo fu breve.
Scommesse clandestine sulle corse dei cavalli, dei cani o anche sulla formula 1. Poi, il colpo di fulmine.
Madreperla bianchissima, quei puntini rosso corallo ad indicare numeri, quella sensazione di strana euforia che prova nel rigirarsi quei piccoli gingilli nella mano, il godimento puro nel vederli rotolare fino a palesare il punto gridato ad alta voce… Nei dadi, Vince ha trovato tutto quello che di affascinante un accanito giocatore può ricercare nel gusto e direi anche nel rischio della scommessa: l’azzardo, l’attesa dell’esito, la continua lotta tra il frenarsi ed il desiderio di oltrepassare il limite, l’ammirazione mista ad invidia che le vincite disegnano sui volti dei presenti e in ultimo, ma in effetti prima di ogni cosa, il senso di potere si sente di avere quando occupa la scena, davanti a quel tavolo dal panno verde mentre cento occhi sono tutti per lui.
…sono passati dieci anni da una certa sera in cui Forthoot lasciò librare nell’aria una vincita favolosa in forma di assegno…
E lo troviamo, adesso, in uno dei tanti Casinò di Las Vegas.
Altri due tiri di quelli azzeccati ed avrebbe trovato la soluzione ai suoi problemi. Due soltanto. Non uno in più.
Perché a Vince piace la bella vita dei vizi e dei divertimenti e lì, in quel mondo, su quella favolosa, sfavillante giostra continuamente in movimento – che frequenta ormai da anni – i soldi non bastano mai.
Non vuole tornare a quei tempi bui. Quelli in cui aveva dovuto svolgere lavori umilianti e faticosi per racimolare i soldi che servivano a soddisfare quella che lui definiva la “malattia”. È vero e bisogna dirlo: Vince Forthoot può essere, sì, un forzato del gioco, un accanito scommettitore ma, in tutta onestà, è il primo che riconosce in questa sua “febbre” una vera a propria condanna, un male incurabile che, giorno dopo giorno, divora la sua volontà di smettere.
Aveva dovuto lasciare l’Italia per colpa di questo suo vizio ormai difficile da perdere e anche qui in America, ancora, deve difendersi e nascondersi dai “nemici” italiani.
Gli dà fastidio la calca. Tutta quella gente che desidera vedere il “bel colpo”, quello che permetterebbe al giocatore di vincere la posta più alta. E allora, prima di tirare, guarda in faccia più d’uno spettatore quasi in segno di sfida e nel fare questo trova la concentrazione giusta per sfidare la fortuna.
Adesso è lì, finalmente.
Davanti a quel panno verde, morbido al tatto, su cui è solito passare la mano prima di lanciare. Ne è attratto allo stesso modo in cui si appaga della morbida e vellutata pelle della giovane Mariah che ora se ne sta al suo fianco tenendogli la mano; quella in cui non aveva i dati, ovviamente.
Pura scaramanzia, credetemi.
Non è solito a simili “slanci” in pubblico, altrimenti.
E di più: nel momento in cui stende il suo braccio per far partire i dadi si volta verso Mariah per “regalarle” un bacio ad occhi chiusi. E così se ne resta fino a che le persone che fanno da corolla al tavolo, con i loro cori di meraviglia o di disappunto, non gli fanno comprendere che esito ha avuto il suo lancio.
La fortuna è dalla sua parte, questa sera. Sta vincendo una grossa somma di denaro ed è ebbro di esaltazione e buon umore per come stanno andando le cose. E vicina a lui, Mariah, con la sua bellezza ed il suo profumo, lascia presagire la notte che verrà. Soldi e sesso. Non è un caso che entrambe le parole inizino con la stessa lettera s: sfrenata sublimazione sensoriale.
Ed ancora un altro tiro. Forse l’ultimo e poi andrà a divertirsi con la sua donna.
Come sempre rigira i dadi nella mano destra, con l’altra tiene quella di Mariah e con gli occhi va a guardare fra la gente che aspetta di vedere il suo lancio. Ne guarda uno e poi ancora un altro. Si ferma sul bel viso di una ragazza appena il tempo per sorprenderla in un vezzo di vanità. Poi prosegue ancora a scorrere sui volti di quella gente, senza vederli effettivamente, però, ma cercando soltanto di scaricare la tensione che s’impossessa di lui prima di scaricarsi completamente nel lancio.
Ed allo stesso tempo, in questo modo, trova quella concentrazione necessaria a “vedere” il risultato, prima che tiri i dadi. Sette volte su dieci indovina il tiro. È questa la sua forza, la sua fortuna.
Trovata la giusta concentrazione, adesso, e giunto al culmine della tensione, si appresta a lanciare i dadi e, come sempre, si volta verso Mariah per darle il solito bacio. E come vedendo la scena al rallentatore – così racconterà un testimone – mentre il braccio si stende nel lancio a dare impulso a quella mano che lascia rotolare i dadi, la testa di Vince si volta verso la ragazza per effettuare il gesto scaramantico del bacio ad occhi chiusi. Non si accorge allora della lametta che la ragazza stringe fra i denti e con la quale, nell’avvicinarsi alla bocca di Vince, in un movimento fulmineo e ben effettuato, squarcia da guancia a guancia il volto dell’uomo. Non contenta, con il sangue che comincia fuoriuscire copioso, con gesto risoluto, recide allo stesso modo la gola del malcapitato, così che ancora più sangue viene a spargersi tutt’intorno e specialmente su quel panno verde dove Vince si accascia moribondo.
Mentre nella sala comincia a crescere il panico, Mariah non si scompone e, con calma, rigira il corpo di Forthoot e comincia a spogliarlo: con estrema lentezza, toglie la cravatta e la giacca e poi, ad uno ad uno, apre i bottoni della camicia. Sembra essere sotto ipnosi, si muove in modo automatico, quasi sembra essere stata programmata a svolgere quelle azioni. Aperta completamente la camicia, infila il dito nella ferita inferta alla gola ritraendolo pieno di sangue. In questo modo, allora, muovendosi sul petto di Vince e ripetendo l’operazione più volte, lascia una scritta che il primo poliziotto che arriverà sul posto avrà modo di leggere:

GIULIA DACROSTA

DO YOU REMEMBER?

La ragazza verrà riconosciuta come incapace di intendere e volere, ossessionata da una vendetta da perseguire a tutti i costi che ha finito per farle perdere il contato con la realtà, difficile da accettare: essere stata oggetto di scommessa, la “merce” di scambio che il patrigno, anni prima, aveva proposto in restituzione di una grossa somma di denaro persa a carte. Sperava, in questo modo, di riavere indietro quell’assegno che aveva staccato e consegnato ad uno dei giocatori, il primo che se n’era andato. Poi gli venne l’idea di “offrire” la figliastra a quell’altro, l’unico che era ancora rimasto seduto al tavolo da gioco a fumare. Quello rispose che un mese di “incontri” con la figlia potevano bastare affinché si interessasse a fargli riavere indietro l’assegno e soltanto dopo l’ultimo giorno di quel mese, lo sfortunato giocatore avrebbe potuto riavere i suoi soldi.
Mariah, piccola bambina di dieci anni, fu costretta dal patrigno ad andare ogni pomeriggio a casa di quell’uomo che puntualmente abusò di lei e ben sapendo che non avrebbe mai potuto mantenere la promessa di restituzione dell’assegno perché Vince Forthoot era sparito – mai fidarsi, anche dei vecchi “amici” biscazzieri – e con lui la favolosa vincita.
Questa tragica situazione segnò inevitabilmente ed in modo irreversibile i futuri giorni di Mariah che cominciò a maturare il suo tentativo di vendetta a cominciare dal patrigno che riuscì a sopprimere simulando un suicidio, con l’aiuto del suo ragazzo di cinque anni più grande di lei. Proseguendo, poi, uno ad uno con gli altri giocatori di quella partita a carte fino a seguire le orme dell’ultimo in America.
Ma tutto questo, Vince, non lo aveva nè mai lo avrebbe saputo…

Robert Strange (ciao.it) 13.12.2005

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