Caro Data Verminibus

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Non riusciva a capacitarsi di come avesse potuto accettare di partecipare ad un gioco così abominevole.
Era terrorizzato.
Infreddolito.
Sperduto.
La torcia che Jason gli aveva dato all’entrata del cimitero, già emetteva i primi sintomi di cedimento. La luce bianca era divenuta tremula e fioca. Il cerchio lattescente incontrava solo ciottoli e buche sul selciato sotto i suoi piedi, incrociando i volti pallidi delle piccole foto di ceramica impresse sulle lapidi, ma non riusciva ad evitargli di inciampare in rami e sterpaglie.
“Ma che ci faccio qui?”. Si ripeteva incessantemente da almeno mezz’ora.
“Ma perché ho accettato questa stupida prova d’iniziazione. Nemmeno m’interessa il loro circolo goliardico. Cristo! Fra due settimane ho l’esame d’anatomia e se muoio stanotte useranno il mio cadavere per la prova pratica di sezione”.
“Già parli da solo Bob?”.
La voce di Jason lo fece trasalire. Non gridò per terrore, non per coraggio.
“Jason!”.
“Non mi buttare le braccia al collo, amico, non sei decisamente il mio tipo”, rispose il ragazzo ridendo. Prese Bob sotto braccio e lo tirò di forza dentro una cripta dal cancello spalancato.
La sala all’interno era rischiarata dalla luce di qualche candela poggiata sul pavimento di pietra. I confratelli del PKK lo fissavano seri, addossati alle mura coperte di lapidi con le mani affondate nelle tasche dei jeans. Qualcuno teneva una sigaretta pendula fra le labbra a mò di novello James Dean, altri si limitavano a guardare con sprezzante ironia il volto di Bob.
Dall’espressione divertita che vide troneggiare sui volti dei suoi colleghi di corso, capì di avere un’aria realmente terrorizzata.
Tossì in modo impacciato, si divincolò dalla stretta di Jason e si portò al centro della sala.
“Allora?”, chiese, “tutta qui la tremenda prova iniziatica?”.
I ragazzi si scambiarono occhiate complici e Bob comprese che avrebbe fatto meglio a tacere.
“Bene, bene, mio caro Bob”, disse Ector, il primo del corso di chirurgia, nonché capo assoluto e carismatico del mitico Pkk.
“La tua prova iniziatica è appena cominciata”.
Risa appena trattenute svolazzarono per l’aria immobile e fremente di odori stagnanti.
“Il tuo compito nella vita, come futuro promettente medico, sarà quello di salvare vite umane. Il tuo compito questo notte, come futuro membro del Pkk, sarà quello di affrontare la morte”.
Urla d’approvazione si levarono dall’assemblea.
“Non facciamo scherzi, ragazzi”, balbettò Bob, “che significa esattamente affrontare la morte?”.
“Semplice: hai letto la simpatica iscrizione sulla volta di questa antica cripta di famiglia?”.
“No”.
Ector lo invitò a seguirlo. Una volta all’aperto, indirizzò il raggio della sua potente torcia verso il tetto della cripta:
“Caro data verminibus”.
“E allora?” chiese Bob con un filo di voce.
I due rientrarono nella sala che ora era illuminata solo dal fioco bagliore di un paiodi mozziconi di cera.
“Questa è la famosa cappella Sellinger”.
“La cappella sconsacrata?”. La voce di Bob era più incredula che spaventata.
“Esattamente. Credo che tu conosca già la storia, ma per dovere di cronaca, reputo sia meglio ricordartela: Sellinger uccise a colpi di fucile il suo stalliere, sua moglie ed il suo figlioletto storpio, prima di puntarsi alla tempia il fedele revolver e metter fine alle sue peregrinazioni su questa terra. La cosa in sé è già abbastanzainquietante, ma a questo si deve aggiungere la piccola diceria che dipinge il vecchio Sellinger come un fedele adepto del Diavolo, per questo la sua adorabile famigliola, e lui stesso, furono sepolti dalla sorella in questa piccola, ma accogliente, cripta sconsacrata”.
Il silenzio nella sala divenne palpabile.
“E questo cosa ha a che fare con la mia iniziazione?”.
“Tu dovrai trascorrere la notte qui dentro. Solo con la tua piccola torcia”.
“C-cosa?”.
“Il ragazzo già se la fa sotto” bofonchiò divertito Jason.
“Voi siete pazzi” imprecò Bob.
“No Bobby bello, siamo solo sadici!”.
Altre risa si levarono all’affermazione di Ector.
“E per quale ragione dovrei sottopormi a questa follia?”.
“Per entrare a far parte della goliardia più esclusiva del campus” disse il ragazzo in fondo alla cripta.
“Per essere invitato alle feste più esclusive” aggiunse un altro.
“Per avere le ragazze più esclusive” ghignò Jason.
“Per dimostrare che non sei un codardo” concluse Ector.

Bob si guardò attorno con circospezione. La stanza non era molto grande, forse quattro metri per quattro, la torcia posta nel centro del pavimento sarebbe bastata per illuminarla tutta, inoltre nella tasca interna della giacca aveva un pacchetto di Lucky Strike ed in quella esterna il fedele walkman per fargli compagnia. Diamine aveva sezionato almeno venti cadaveri da quando si era iscritto l’anno precedente alla facoltà di medicina, si era perfino addormentato nella sala settoria per terminare di preparare quel benedetto esame di anatomia, una notte in quel posto non poteva di certo ucciderlo.
“Accetto” disse baldanzoso.
Grida e fischi d’approvazione accompagnarono la sua decisione.
I ragazzi abbandonarono la cappella sfilandogli silenziosi alle spalle ed augurandogli in bocca al lupo. Ector si trattenne sulla porta della cripta e, prima di chiudere il cancello, disse:
“Se non te la dovessi sentire…”.
Bob restò a fissarlo attento.
“Grida…Forse il guardiano del cimitero ti sentirà, e se sarai fortunato non ti sparerà credendoti un ladro”.
Rise allontanandosi.
“Bastardo figlio di puttana” imprecò Bob fra i denti.
Si avvicinò alle sbarre chiuse, accese la torcia e ne puntò il raggio verso l’esterno: nulla, solo buio e silenzio avvolgevano il viale alberato che conduceva all’ingresso del cimitero.
Si voltò di scatto verso le lapidi e gridò:
“C’è nessuno?”.
Ovviamente nulla si mosse. Nessun sussurro gli lambì l’orecchio, né alcuna mano gelida gli si posò sulla spalla.
Si avvicinò alle lapidi cementate nel muro di pietra grigia.
“Lowrence Sellinger, Margareth Mildred Sellinger, Stewart SellingerJr.”
Lesse i nomi ad alta voce scandendoli bene, come in una sorta di appello e tornò a guadarsi alle spalle con occhi sgranati.
Silenzio.
Bene, pensò, la sua immaginazione, almeno per il momento, era tenuta egregiamente a freno dal suo autocontrollo, niente allucinazioni.
Sorrise.
Pose la torcia accesa al centro della sala. Il fascio di luce limpida rischiarò l’ambiente a sufficienza per poter tener d’occhio i quattro angoli della stanza e la cancellata d’ingresso.
Si sedette sul pavimento con le spalle appoggiate alla parete che fiancheggiava le pietre sepolcrali, attese ancora qualche attimo e quando si convinse di essere relativamente al sicuro, sfilò il walkman dalla tasca anteriore della giacca a vento e lasciò che la musica lo avvolgesse azzerando il silenzio che lo circondava.
Socchiuse gli occhi. Si accese una sigaretta e dopo aver inalato affondo iniziò a rilassarsi.
(Che sciocchezza), pensò, (temere i morti. In fin dei conti come prova iniziatica potevo attendermi qualcosa di peggio, che so… mangiare escrementi, girare nudo per il dormitorio del campus femminile, essere costretto a fare proposte sessuali ad Emily Costing, la sgobbona occhialuta ed obesa del quarto anno) sorrise compiaciuto del suo coraggio, pregustando la festa che la notte dopo avrebbe consacrato il suo ingresso nel PKK.
Un movimento leggero ed indefinibile attirò la sua attenzione.
Si sfilò gli auricolari, prese la torcia e si avvicinò alla parete affianco.
Gli ci vollero alcuni secondi per individuare la sorgente del crepitio: dall’angolo inferiore destro della pietra tombale di Stewart Sellinger Jr. scendeva una polvere fine che rotolava a terra producendo un suono simile allo squittio di un piccolo roditore.
Bob seguì con la punta delle dita il percorso del pulviscolo e trovò il foro dal quale proveniva.
Si osservò perplesso la punta dell’indice, l’annusò e ritrasse il volto con una smorfia di disgusto.
“Oddio”, mormorò trattenendo un conato, “sembra carne in putrefazione”.
Si girò e lo vide.
Un ragazzo di poco più di tredici anni, il volto regolare, ma solcato da una profonda cicatrice che gli percorreva l’intero labbro superiore fino alla guancia sinistra, le mani uncinate e contorte strette contro il petto e le gambe magre, quasi scheletriche, che sporgevano da una camicia da notte bianca.
Il ragazzo lo fissò, poi si portò un dito uncinato alle labbra pallide facendogli cenno di stare zitto.
Bob era pietrificato. Non si rendeva neppure conto di come non fosse ancora svenuto. Si sentiva il volto insensibile, le mani fredde e distanti, una sensazione di depersonalizzazione si era impossessata di lui nell’attimo esatto di quella bizzarra visione.
Il piccolo gli si fece più dappresso. Bob indietreggiò, inciampò nei suoi stessi piedi, cadde rumorosamente e pesantemente sul suo muscoloso posteriore, senza mai distogliere gli occhi da quelli del fanciullo.
Il ragazzino si sedette di fronte lui, lo fissò con lo sguardo triste e mesto:
“Ascoltami” disse.
La sua voce era leggera, quasi impalpabile ed efebica, nessuna nota spettrale la incrinava, Bob si sorprese a rispondere:
“Dimmi”.
Il piccolo sorrise mostrando una fila di minuti denti regolari. Anche le gengive superiori erano solcate dalla medesima cicatrice che lì si faceva ancor più irregolare.
Stewart prese le mani del giovane fra le sue. Un freddo glaciale investì Bob fin dentro le ossa. Vide una luce abbagliante e poi fu il buio totale.
Aprì gli occhi a fatica, ed un raggio di luce gli ferì la vista.
Si trovava in una stanza da letto.
Un piccolo scrittoio era posto sotto ad una finestra spalancata. Non c’erano quadri alle pareti, le mura erano scure e spogliefatta eccezione per un piccolo crocefisso che pendeva sopra la porta. Accanto al letto c’era una sedia a rotelle sulla quale giaceva addormentato il piccolo Stewart.
Bob si avvicinò, allungò una mano e si rese conto con stupore che le sue dita attraversavano con facilità il legno scuro della spalliera.
Tentò di afferrare la maniglia d’ottone della porta, ma il pomo metallico gli attraversò il palmo.
(Incredibile), pensò, (sono un fantasma…).
Qualcuno picchiò contro l’uscio.
Bob si ritrasse verso lo stipite, ma quando la porta si spalancò il materiale ligneo lo passò da parte a parte, e la cameriera con il pranzo sul vassoio lo attraversò senza neppure accorgersene.
“Signorino Stewart, la sua cena”.
Disse compunta lasciando le pietanze sul ripiano della scrivania, ed abbondando la stanza con fretta nervosa.
Il ragazzo armeggiò con disinvoltura con la sedia a rotelle. Volse lo sguardo nella direzione di Bob, facendolo trasalire, poi si dispose di fronte al piatto fumante ed incominciò a mangiare.
Stewart era ancora più pallido di come Bob lo rammentava. La cicatrice che gli zigzagava sul volto era di un rossore vermiglio, gli occhi spenti ed incavati lo facevano assomigliare ad un buffo pierrot, le mani erano ossute, rattrappite sui palmi e le gambe contorte erano nascoste da una coperta di pizzo bianca.
D’un tratto smise di mangiare.
Guardò intensamente la finestra e gli stipiti di quest’ultima si chiusero con fragore senza che il giovane li avesse neppure sfiorati.
Quando la stanza fu immersa nella penombra, Stewart gettò a terra la coperta, giunse le mani di fronte al volto, come immerso in una solitaria preghiera, e si librò a mezz’aria.
Bob era esterrefatto.
L’espressione di Stewart era di perfetta beatitudine.
Sembrava emanare una sorta di luce soprannaturale. Un bagliore che gli scaturiva dalle mani giunte, dagli occhi riversi verso l’alto, dai capelli che gli svolazzavano attorno al volto emaciato.
D’un tratto la porta si spalancò.
Lawrence Sellinger entrò con passo marziale nella stanza.
Guardò il figlio con disprezzo.
Aprì la finestra e lo fissò dritto negli occhi:
“Scendi”, gli ordinò, “smettila con questi trucchi da baraccone, piccolo mostro deforme”.
Stewart planò con dolcezza sulla sedia, si coprì le gambe raccattando la coperta da terra e ricominciò a mangiare.
“Sei stato la mia rovina”, proseguì l’uomo ruggendo, “da quando sei nato nulla è stato più lo stesso. La tua deformità, la tua faccia”, disse contorcendo il volto in un’espressione disgustata, “e poi questo”, aggiunse additando il soffitto, “sei opera delDemonio, ecco cosa sei” sbraitò.
Il ragazzo non disse nulla. Continuava a portare il cucchiaio alle labbra senza badare minimamente all’uomo che lo stava aggredendo.
“Perchè sei venuto?” gli chiese con distacco.
“Io e tua madre…”.
“Come sta mia madre?”, chiese quasi sorridendo, “sono quasi tre mesi che non la vedo. Vive ancora qui?”.
“Certo che vive qui”, disse Lawrence urlando, “non riesce più a neppure a pensare a te dopo quello che le hai fatto”.
Lacrime cocenti scesero sul volto duro dell’uomo.
“Le sono guarite le bruciature? Oppure il suo bel viso è rimasto deturpato da quello spiacevole incidente?”.
“Incidente? Le hai fatto volare una candela accesa fra i capelli! Hai il coraggio di chiamarlo ancora incidente?”.
“Come lei ha il coraggio di chiamare me errore” sentenziò il ragazzo. I suoi occhi azzurro ghiaccio risplendevano di una sorta di luce innaturale e spettrale. Sorrideva. L’espressione più raggelante che Bob avesse mai visto dipingersi su un volto umano.
“Non voglio parlare con te” sussurrò Lawrence.
Stewart riprese a mangiare.
“Io e tua madre andremo in città per un paio di giorni”, riprese con fatica, ” qui resterà la servitù al completo. Tornerò a farti visita la prossima settimana”.
Uscì.

Le ore trascorsero pigre ed inutili.
Stewart non si prodigò in altri strabilianti esibizioni, ma si limitò a restare disteso sul letto con gli occhi sgranati, fissando un punto imprecisato del soffitto.
Bob attendeva di comprendere perché si trovasse lì e soprattutto come ci fosse arrivato.
Stewart si drizzò a sedere, si massaggiò con forza le gambe, poi chiamò a gran voce Elizabeth.
In pochi minuti una ragazzetta magra e sciatta, con una cuffietta di crinoline appoggiata su una cascata di capelli rossi fiammanti ed una selva di efelidi che le costellavano il volto scarno, fece il suo ingresso nella stanza, e, dopo una breve riverenza, disse.
“Ha chiamato?”.
“Sì. Massaggiami le gambe”.
La ragazza si sedette sulla sponda sinistra del letto, mise gli arti contorti del suo giovane e malato padrone sul suo grembo, e cominciò a strofinargli con vigore le caviglie.
“Tu hai paura di me, Beth?”, chiese Stewart volgendo lo sguardo verso la parete opposta.
“No, Signorino, dovrei?”.
“Tutti hanno paura di me, Beth”.
“E perché mai?” chiese la ragazza sorridendo.
“Perché sono un mostro” disse Stewart serafico.
La ragazza fu colta da un momentaneo sgomento, si portò istintivamente una mano alla bocca come per trattenere una parola di troppo che stava per sfuggirle. Riacquistò un minimo di contegno, e, ricominciando a massaggiare i polpacci del giovane, aggiunse:
“Non è così terribile il vostro aspetto”.
Silenzio.
“Nel piccolo paese dove sono nata, tanti ragazzi hanno… bhe… qualcosa che non va”.
“Spiegati meglio” la esortò Stewart benevolo.
“Dicono che sia colpa della fame e della miseria. Il cibo manca, l’acqua è un lusso e tanti bambini soffrono di stenti e non crescono, oppure crescono male, come voi Signorino”.
“Ma io non sono povero” aggiunse divertito il ragazzo.
“Oh, lo so Signorino”, ridacchiò lei, “ma i disegni del Signore sono strani. Forse il vostro male non è causato dalla miseria” concluse lei soddisfatta.
“Ed i ragazzi del tuo paese, i poveri storpi del tuo misero paese, sanno fare questo?” chiese enfatico.
Elizabeth non ebbe il tempo di chiedere null’altro. Il suo esile corpo si librò nell’aria e rimase sospeso.
La ragazza si guardò i piedi con meraviglia e li cominciò ad agitare divertita. Rideva e scalciava inebriata da quell’incredibile esperienza. Stewart si rabbuiò. Più la giovane emetteva urla di giubilo, più i suoi occhi assumevano quell’aria inquietante che aveva allarmato Bob poche ore prima.
Beth finì scaraventata contro la parete di fronte.
Picchiò la testa con tanta forza da lasciare un piccolo incavo nell’intonaco della parete, quindi scivolò lungo il muro come una bambola di pezza. Un rivolo di sangue vermiglio le sgusciò sinuoso fra le labbra dischiuse. Giacque con gli occhi sbarrati, morta.
Bob gridò senza emettere suono.
La porta d’ingresso si spalancò animata dalla volontà di Stewart ed il cadavere di Beth volò fuori dalla stanza.
Stewart si distese sul letto e si addormentò.
Bob si destò come da un torpore arcano. Era ancora lì, uomo invisibile in un’epoca aliena, a spiare una vita non sua, sospeso nel nulla di un delirio.
Stewart era di nuovo sulla sua sedia. Il padre era seduto in lacrime sulla sponda del letto, singhiozzava.
“Quando lo hai scoperto?” gli chiese il figlio con voce ferma.
“Durante la prima notte che abbiamo trascorso in albergo” la voce dell’uomo era impastata, stentata.
“Lo ha chiamato dal telefono della nostra camera, e… Oddio, quello che gli ha detto”, si fermò interrotto da un ennesimo singulto, “sono amanti da più di un anno. Si incontrano qui, proprio nella nostra casa. Ha detto che lo ama, glielo ha detto mentre ero nella stanza da bagno. Credeva che non la sentissi”.
Stewart si voltò verso suo padre.
“Vuoi che li uccida, non è vero?”.
Lawrence si ammutolì, acconsentì con un sofferto cenno della testa.
“Tu vuoi l’aiuto del Diavolo” aggiunse il ragazzo in preda ad una risata isterica.
“Ho bisogno del tuo aiuto, non avrei mai il coraggio di…di…”.
“Va bene, lo farò”.
Lawrence Sellinger fissò il figlio con assoluta gratitudine e forse per la prima volta nella sua vita lo amò davvero.
“Ma ad una condizione”.
“Quale?”.
“Voglio morire”.
“Cosa?”.
“Da quando sono nato mi avete trattato come un fenomeno da circo, mi avete nascosto alla vista del mondo, rinchiuso, escluso. Lo storpio che non poteva essere mostrato alla gente, l’essere che aveva strani poteri oscuri, il diavolo in persona. Non sono nato cattivo papà”, sussurrò, “ma lo sono diventato. Il male è l’unica cosa che mi abbia dato la forza di sopravvivere. La mia mente è sana, è soprannaturale, ma il mio corpo è solo una prigione ed io voglio essere libero. Voglio andarmene, fosse anche l’inferno, sarebbe sempre meglio di questo” disse picchiando con forza sui braccioli della sedia a rotelle.
Lawrence si alzò, posò una mano sulla spalla del figlio:
“Tu sei mio figlio, ma ti ho sempre considerato la punizione per gli errori che ho commesso. Ti chiedo perdono. Fai ciò che hai promesso e sarai libero, ed io con te”.
Bob si trovò d’improvviso catapultato all’esterno.
Si vagava in una specie di maneggio. Una moltitudine di cavalli brucavano l’erba attorno ai suoi piedi invisibili, il sole splendeva alto e brillante nel cielo, l’orizzonte terso e limpido scrutava con paziente benevolenza gli uomini che si agitavano al suo cospetto.
Si avvicinò alla famiglia Sellinger riunita attorno alla sedia di Stweart intento ad accarezzare il muso di un baio recalcitrante e nervoso.
Margareth era ritta al fianco del marito, disorientata. L’ovale coperto da una veletta bianca che nascondeva un rossore che le percorreva l’intero volto, i resti dell’ustione causata da suo figlio.
Lawrence era impettito, muto ed assorto.
Lo stalliere era intento a trattenere le redini del cavallo con cui Stewart stava giocando.
Visto da fuori sarebbe parso un commovente quadretto di famiglia: un’eterea signora che insieme al compunto marito, tenta di far divertire il figlioletto infelice.
Stewart si voltò verso il vicino capannone del maneggio. Un fucile a canne lunghe svolazzò silenzioso dalla costruzione di legno fin nelle sue mani.
La madre gridò.
Il ragazzo le puntò il fucile all’altezza del petto e fece fuoco.
La donna fu scaraventata all’indietro dall’impatto del proiettile. Compì un’atletica piroetta su se stessa prima di piombare sulla schiena nell’erba fresca e bagnata dalla rugiada del mattino.
Una macchia vermiglia si allargò sul pizzo del suo vestito candido, un foro scuro e fumante sbirciava dal centro della macchia come un occhio ciclopico.
Lo stalliere corse nella direzione della donna. Stewart sparò ancora colpendolo alle spalle, l’uomo morì riverso sulla sua amata.
Lawrence si avvicinò al figlio, ma lui lo colpì alla testa con un ultimo colpo. Il sorriso sul volto dell’uomo fece rabbrividire Bob più della stessa serie di omicidi.

Si destò urlando.
La cripta era rischiarata dai primi raggi dell’aurora. Era mattina, la notte era trascorsa.
Si alzò a fatica e si guardò attorno attonito.
Tutto sembrava esattamente come lo aveva lasciato la notte precedente.
Ma lo aveva davvero lasciato?
“Un sogno”, gridò alla sala vuota, “è stato solo un fottutissimo sogno!” .
Cominciò a piangere e ridere all’unisono.
Saltava.
Urlava.
Rideva.
Era vivo, sano, e membro del Pkk.

Jason giunse pochi attimi dopo.
“Hey, bello!”, esclamòsoddisfatto, “ce l’hai fatta!”.
“Puoi dirlo forte amico, ce l’ho fatta” canticchiò Bob.
I due uscirono dalla cripta dandosi poderose pacche sulle spalle.
Il cimitero di giorno non incuteva nessun timore, rifletté fra se e se Bob divertito, solo una serie di innocue lapidi spoglie ed anonime. Nulla che potesse fargli del male.

Giunti nella Vitata, Ector, che li attendeva al posto di guida, li accolse con uno splendido sorriso, li fece montare e si diresse sgommando alla volta del campus.
“Com’è trascorsa la notte, grand’uomo? Sei riuscito a prendere sonno o sei rimasto a fissare le lapidi con occhi sgranati da cucciolo ferito?” chiese Ector.
“Ho dormito come un bambino” rispose Bob spavaldamente.
“Ma che bravo”, enfatizzò Jason, “il futuro dottore ha coraggio da vendere, allora”.

Arrivarono al campus in pochi minuti.
Bob si tuffò sotto la doccia appena giunto nel suo piccolo appartamento studentesco.
Le immagini ancora vivide di quello strano viaggio onirico gli affollavano i neuroni. Aveva negli occhi i lampi delle detonazioni, ma il ragazzo? Chi aveva sparato al ragazzo? Scosse con forza la testa, scrollandosi di dosso i pensieri e la schiuma dello shampoo.

Verso le undici della stessa sera Jason lo passò a prendere per condurlo alla festa in suo onore che il PKK aveva organizzato per dargli il benvenuto nella confraternita.
Il circolo goliardico si trovava in un vecchia costruzione, tenuta, a dire il vero, in ottimo stato e posta all’estrema periferia ovest del campus.
Dalla porta spalancata provenivano le urla disperate dei Megadeth, un vecchio album della band di Mustain rallegrava gli animi e stordiva le menti.
Bob entrò gridando e l’intera brigata gli rispose con un ovazione di gaudio.
Una ragazza discinta, e già quasi completamente ubriaca, gli gettò le braccia al collo e gli fece scivolare la lingua fra i denti, travolgendolo in un bacio mozza fiato.
“Wow!!” urlò Bob.
“Che ti avevo promesso bello”, gli fece eco Jason, “le ragazze più esclusive e più disponibili del campus ai tuoi piedi. Questo significa essere un membro del PKK”.
Bob passò da una birra all’altra, da una bocca ad un’altra per quasi tre ore, poi, stanco, si ritirò in una delle stanze al secondo piano, alla frenetica ricerca di un bagno.
“Buon Dio”, sghignazzò alla sua immagine riflessa nello specchio sopra il lavabo.
Si sciacquò il volto e si voltò.
Gridò.
Stewart era ritto di fronte a lui.
I piedi penzolavano a quasi dieci centimetri da terra, il volto cereo solcato dalla cicatrice irregolare, le mani artigliate lungo i fianchi.
“Hai ragione Bob”, sussurrò, “a me nessuno ha mai sparato”.
“Ma tu sei morto, sei…un…”.
“Cadavere, ricordi Bob? Caro data verminibus. Ca-da-ver. Cadavere. Non hai sognato Bob”.
Bob cadde sulle ginocchia.
“Ma tu sei morto, vero?”.
“Oh sì, sono morto di malattia quasi… cento anni fa, ma una mente superiore non muore mai Bob, un fenomeno diabolico come me non può morire Bob”.

Il ragazzo gli si avventò addosso ghermendolo con le mani adunche.
Bob gridò fino a svenire.
“Bob, ma che fine avevi fatto, è quasi un’ora che Lucy ti cerca. Quella donna è pazza di te bello!” disse Ector cingendogli le spalle con un braccio.
“Tutti sono pazzi di me Ector” rispose Bob divincolandosi.
“Bob, ma come ti sei fatto quella cicatrice sul labbro?”.
“E’ un ricordo di famiglia”, sorrise, “nulla più”.
“Ma non l’avevi ieri sera, e nemmeno questa mattina… anzi non rammento di avertela mai vista…”.

Bob si voltò verso Ector e lo fissò con intensità.
Il capo del PKK si portò le mani alla testa ed urlò di dolore. Un fiotto di sangue gli zampillò dal naso e dalla bocca spalancata, quindi si accasciò a terra esanime.
La musica continuò a tuonare.
Le ragazze a ballare.
Bob abbandonò la sala levitando a mezz’aria.

Vampire Gennaio 2004 (ladyofvampires)

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