Anna

Racconti


Erano le cinque del mattino quando decisi di alzarmi dal letto e smetterla di inventare nuovi modi per prendere sonno. Contai le pecore, i lupi che mangiavano le pecore e i pastori incazzati che ammazzavano, a colpi di fucile, i lupi che mangiavano le pecore. Niente da fare, allora cominciai a contare i secondi seguendo il ticchettare dell’orologio. Arrivai a millecentoventisette, poi levai l’orologio e lo lanciai con ira nel buio. Molti altri vani tentativi fin quando non decisi, appunto, di alzarmi. Faceva molto freddo e fuori
l’umidità della sera, bagnava le auto parcheggiate lungo il viale, colorandole di un bianco trasparente. Intorno a me il silenzio, anche gli uccelli stavano ancora dormendo. Indossai la vestaglia, era di colore blu, un po’ logora all’altezza del bacino, a causa del continuo sfregare della cintura e con l’estremità delle maniche sfilate, feci il caffè e ancora prima di berlo accesi una sigaretta che però non aveva un buon sapore, allora bevvi il caffè e la sigaretta acquistò quel suo classico gusto morbido e corposo che fu un vero piacere fumarla. Finii subito e ci rimasi un po’ male, fui tentato ad accenderne un’altra, l’accesi. I movimenti del fumo, che si formava al bruciare del tabacco, mi catturarono, mossi la sigaretta per creare nuove figure, la feci andare su e giù per creare i cerchi di fumo che con la bocca non ero capace di fare. Continuai finché non m’accorsi che era finita, senza averla fumata. Il suono del telefono mi fece sobbalzare, per non dire che mi fece salire il cuore in gola dalla paura. Non risposi subito, controllai prima il numero ma non era disponibile e questo mi fece pensare a due cose: stanno telefonando da un telefono pubblico oppure sanno che posso controllare il numero e quindi è stato volutamente coperto. Alzai la cornetta:
“Pronto!”
Dall’altra parte una voce di donna in lacrime, una voce che al momento non riconobbi.
“Mi hanno preso tutto quei fottuti bastardi!” disse.
Mi sforzai di riconoscere la voce, quindi non dissi nulla.
“Tutto, sono scappati portandosi via anche la macchina” continuò la voce stridula e piena di collera.
Capii che non era nessuno che potessi conoscere quindi dissi:
“Scusi, ma chi parla?”
“Come chi parla, sono Anna” disse la ragazza urlando.
“Anna chi!?” risposi.
“Paul, ma non sei tu?” mi chiese, diventando d’un tratto calma e composta.
“Veramente qui non c’è nessuno con questo nome, ha sbagliato numero” le dissi.
“Merda! Ci mancava solo questo” e riattaccò.
Misi giù la cornetta abbastanza perplesso, per un momento rimasi accanto al telefono che continuò a tacere. Mi sedetti sul divano e pensai ad Anna, a ciò che le era capitato e a come se la sarebbe cavata. Chi era Anna? Com’era fatta Anna? Magari era una bellissima ragazza, con lunghi capelli neri, soffici boccoli, che quasi sfioravano la perfezione della forma, un visino dolce, aggraziato, dai lineamenti morbidi, due occhi castano chiari e un naso piccolo
e un po’ all’insù. Il suo corpo era snello, slanciato con delle curve da capogiro. Non riuscii a pensare ad altro, fui completamente catturato da lei.
Sentii il mio cuore battere con maggiore frequenza e una leggera sensazione di caldo m’invase, partendo dal viso ed estendendosi a tutto il corpo. I miei pensieri divennero dei più pessimisti, mi chiesi se chi le aveva preso tutto era in fuga, lontano da lei, o fermo a poche decine di metri catturato dalla sua bellezza, madido di sudore, con le gocce che gli colavano lungo il viso e le mani strette sul volante dell’auto, con in testa solo lei, pronto a tornare indietro per averla, per godere del suo corpo, per assaggiare i suoi seni, toccarla, stringerla forte a se. Mi sentii sempre più agitato, nervoso. Pensai pure che potesse non essere una sola persona ad averla derubata, magari erano in due, in tre, tutti con lo stesso pensiero, tutti con l’immenso desiderio di possedere quell’angelo. Pieno d’ansia, con un buco allo stomaco, con le gambe rigide e la schiena bagnata per il sudore, bevvi dell’acqua con la speranza di calmarmi, di ritornare in me stesso, di abbandonare quei pensieri, di abbandonare Anna. Girovagai per casa, con il bicchiere d’acqua in mano mezzo pieno, in cerca della ragione, della razionalità. Non aveva alcun senso aggrovigliarsi lo stomaco per quella ragazza, che nemmeno conoscevo, alla quale, in fondo, era capitata la cosa più ovvia che può capitare ad una persona nel cuore della notte in questa città. Il corpo rigido pian piano s’ammorbidì, il battito divenne regolare e l’ansia fece posto alla calma. Controllai l’ora,
le cinque e trenta, ancora incredibilmente presto per poter pensare di iniziare la giornata. Decisi di tornare a letto, magari mi sarei addormentato. Appena fui a letto sentii talmente tanto freddo che tremai tutto, mi coprii fin sopra i capelli e cercai di stare immobile finché non mi riscaldai. Il sonno non arrivò affatto, anche perché avevo bevuto il caffé che mi fa l’effetto di un’anfetamina quando si tratta di dormire, ma arrivarono una miriade di pensieri che però dovettero lasciare spazio ad uno solo: Anna, la ragazza della telefonata. Ritornai dunque a pensarla e questa volta con una sensazione di rabbia, collera, perché ero disteso in quel letto, completamente impotente, non potendo fare nulla per lei e questo mi uccideva. Mi alzai di scatto, indossai i primi vestiti che trovai e in pochi minuti fui in macchina, per le strade deserte della città ancora dormente. Poche auto lungo le strade, auto guidate dai lavoratori del primissimo mattino o dagl’instancabili della notte.
Girovagai senza una meta, guardando un po’ ovunque. Cercai di guardare all’interno di tutte le cabine telefoniche che incontravo fin quando in una non vidi una ragazza. Fermai la macchina, abbassai il finestrino ma non ebbi nemmeno il tempo di parlare che appena mi vide lasciò cadere la cornetta del telefono e cominciò a correre. Sicuramente l’impaurì, allora scesi dalla macchina e urlando le dissi che non avevo nessuna cattiva intenzione, che volevo sapere solo il suo nome perché cercavo una ragazza di nome Anna. Non rispose, anzi si mise a correre ancora più velocemente finché svoltato un angolo non la vidi più. Tornai alla macchina e continuai la mia ricerca.
M’accorsi che potevo rimanere a secco da un momento all’altro, allora mi fermai al primo benzinaio che incontrai e feci benzina. Proprio mentre facevo benzina passò una ragazza col viso un po’ provato, pensai che poteva essere lei. Senza avvicinarmi, per evitare di impaurirla, le chiesi il nome. All’inizio non volle dirmelo ma dopo averle spiegato le mie ragioni mi disse che si chiamava Giulia.
Ripresi la mia ricerca, andai verso nord. Mi sentii sempre più frastornato dalla collera, avvertii anche un po’ di stanchezza ma non ebbi nessun’ intenzione di tornare a casa. Le luci artificiali dei lampioni fecero posto al pallido sole che sorgeva. I palazzi acquistarono un aspetto particolare, dei colori nuovi che solo con quella luce erano visibili. Il numero delle auto lungo le strade aumentò, gli autobus si popolarono e io mi sentii sempre più scoraggiato. Pensai che non l’avrei mai trovata, col trascorrere del tempo le possibilità divennero sempre più esigue. Fermai la macchina appena vidi uno spazio adatto, spensi il motore, lasciai le mani sul volante e v’ infilai la testa. La disperazione m’ invase, chiusi gli occhi e mi apparvero delle scene indescrivibili, indicibili. Sentii anche le urla di Anna, chiare e nitide, come se tutto stesse accadendo a due passi da me. Desiderai aprire gli occhi per fermare quel massacro ma qualcosa mi spingeva a continuare ad assistere alle torture che le facevano. Era stesa per terra con il volto verso il cielo, gli occhi sgranati e pieni di terrore, due le tenevano le braccia e altri due, mentre le tenevano le gambe assaporavano e divoravano con malvagità e violenza il suo corpo. Le stringevano il seno, lo leccavano, lo mordevano. Una quinta persona divorava il suo sesso. Si davano il cambio e fra schiaffi e urla strazianti ognuno dava piacere al proprio membro facendolo scivolare dentro ogni suo orifizio. Non aveva più la forza per urlare ne dimenarsi, era diventata un corpo inanime a completa disposizione dei suoi violentatori. Aprii gli occhi che immediatamente sentii bruciarli a causa del forte sole che ormai era apparso in cielo con tutta la sua forza. Mi toccai il viso, era bagnato per le lacrime che involontariamente versai. Mi asciugai e rimasi a fissare il vuoto. Mi ripresi in fretta dal quel momento catatonico e guardando l’orologio mi resi conto che era ora di andare al lavoro. Mi sentii male al pensiero di dover abbandonare tutto. Senza tornare a casa per darmi una sistemata corsi al lavoro. Una volta arrivato non ebbi il tempo nemmeno di entrare in ufficio che fummo tutti convocati in sala riunioni. Il capo ci presentò una ragazza, di nome Anna, annunciando che da quel momento avrebbe fatto parte della squadra. Solo a sentire quel nome le gambe per poco non
cedettero lasciandomi disteso a terra. Sperai con tutto me stesso che fosse la mia Anna, anche se non era per niente l’angelo che la mia fantasia aveva creato. Era bassa, cicciotella, con i capelli cortissimi e il naso schiacciato contro il viso. Per l’impazienza di chiederle cosa le fosse capitato la scorsa notte, invece di aspettare la pausa pranzo, mi precipitai da lei. Bussai alla porta del suo ufficio, la sua voce, da dentro:
“Avanti”
Entrai, chiusi la porta dietro di me e le dissi:
“Salve, sono Dan, tre porte più avanti sulla destra, scusi se la disturbo ma volevo chiederle se aveva passato una notte tranquilla”
Lei mi guardò con stupore, visto la domanda alquanto strana.
“Si, perché mi fa questa domanda, Dan?” disse con calma e curiosità.
Non risposi ma stramazzai a terra e il buio e il silenzio mi circondarono. Quando aprii gli occhi una forte luce mi abbagliò e quindi dovetti subito richiuderli. Li riaprii con calma in modo da farli abituare e quando potei tenerli completamente aperti cercai di capire in che luogo mi trovavo. Era una stanza molto piccola, quadrata, con un letto, su cui ero steso, lungo una parete e una porta alla parete opposta. Era completamente vuota, a parte il
letto e me. Mi alzai dal letto per andare verso la porta quando all’ improvviso mi resi conto di avere le braccia immobilizzate da una camicia di forza e che le pareti della stanza erano imbottite.

Luca Anfossi Giugno 2006

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