Anamnesi di un Delitto

Racconti


La pioggia batteva insistentemente sulla pensilina di ferro.
Il rumore metallico che ne derivava richiamava alla mente il rintocco impazzito di campane distanti.
La sala d’attesa era gremita come ogni lunedì mattina. Alcune signore sedevano compunte e silenziose vicino al tavolino con le riviste, un ragazzo si fissava intensamente la punta delle scarpe con aria assente e torva, una giovane mamma tentava in vano di far restare seduto il suo bambino che cercava in ogni modo di tuffarsi giù dal divanetto di finta pelle nera.
“Signor Martin le sue analisi sono pronte” disse l’infermiera Mildred richiamando l’attenzione del giovane che smise di osservarsi le calzature per precipitarsi nello studio del dottor Marlow.
“Deve aver fatto uno di quei test per quelle strane malattie sessuali che girano…”, sussurrò furtiva la signora vicino alla finestra rivolta alla donna seduta alla sua destra.
“Credo proprio di sì…Ha visto che faccia preoccupata aveva…Giovani d’oggi. Drogati e depravati!” Sentenziò, accompagnando la frase con una smorfia di disgusto.
La porta si spalancò con fragore ed una fila indiana composta da tre studenti fradici, con i camici sbottonati, fece il suo ingresso nel piccolo ambulatorio seguita da una folla di foglie bagnate e di schizzi di grandine.
“Che tempo!”, esclamò il più alto del gruppo indirizzando un sorriso benevolo all’infermiera che lo fissava perplessa dalla porta dello studio del dottore.
“Accomodatevi nella saletta degli infermieri. Il dottor Marlow vi raggiungerà non appena avrà terminato le visite di oggi. Mi raccomando…”.
“…non toccate gli schedari, non fate rumore e non respirate” recitarono in coro i ragazzi ridendo.
Mildred abbozzò una leggera increspatura delle labbra che doveva essere quanto di più vicino ad un cordiale sorriso riuscisse a mimare a quell’ora del mattino, quindi sparì dietro la porta dello studio.
Verso le undici il dottor Marlow fece il suo solenne ingresso nella saletta. Gli studenti si alzarono in fretta dal pavimento dove si erano adattati a studiare, e lo salutarono con doveroso e reverenziale rispetto.
“Bene”, esordì il docente, “oggi ho decisamente poco tempo da dedicare a voi. Se avete, come credo abbiate fatto, frequentato le mie lezioni per la durata dell’intero semestre, le patologie cardiache e quelle infettive non dovrebbero avere alcun segreto per voi. Se vi siete comportati altrimenti, non supererete il test di sbarramento di fine anno e non ci vedremo più, quindi il problema è solo vostro…” concluse la frase sghignazzando.
“Comunque oggi, invece del solito ed approfondito giro di visite in ospedale, vi porterò nella sala settoria per mostrarvi alcune patologie particolari. Lì non c’è necessità di interloquire con i pazienti”, rise, “e ci sbrigheremo in meno di un’ora”.
Uscì seguito dalla fila ordinata di camici candidi e bisbiglianti. “E’ insopportabile quest’uomo” gracchiò Lorna stizzita.
“Shhh!” le intimò Donald.
“Sei il solito leccapiedi” lo rintuzzò lei.
“Chissà che troveremo laggiù fra i morti” sussurrò John imitando la voce di Vincent Price nell’ “Abominevole dottor Phibes”.
“Magari la salma di quella cretina di tua madre” sentenziò il dottor Marlow.
La sala settoria era avvolta da quel solito e spiacevole odore di carne frolla mista ad alcool che impregnava i muri ed il pavimento logoro e solcato da sinistre strisce nere, cimelio delle rotelle delle lettighe di ferro sulle quali erano adagiati i corpi.
Alcune salme giacevano ad occhi spalancati, nude e segnate dal pennarello rosso che tratteggiava le zone che il patologo avrebbe dovuto sezionare. I erano volti amimici, cerei, alcuni gonfi e leggermente violacei. Lorna ne contò quattro, tre uomini ed una donna, tutti molto giovani e assolutamente immobili.
John si avvicinò al cadavere della ragazza ed osservò perplesso l’enorme ferita che le squarciava il collo.
“Assassinio”, disse Marlow, “probabilmente una prostituta a giudicare da come era vestita quando è giunta qui ieri sera”.
“E’ deceduta prima o dopo essere arrivata in ospedale?” chiese John.
“Non lo so, io l’ho vista morta, ma dato il risultato, che importanza ha?”.
“Lo odio quest’uomo” sibilò Lorna. Stavolta Donald acconsentì.
“Seguitemi, non sono le salme che voglio mostrarvi, ma il museo anatomico della facoltà”.
Raggiunsero un corridoio lungo e stretto, illuminato da una serie di sbarre al neon che troneggiavano nel centro del soffitto bianco. Camminarono per alcuni minuti prima di giungere di fronte ad una piccola porta di metallo azzurro sprangata da un pesante catenaccio. Marlow trasse dalla tasca del camice un mazzo di vecchie chiavi e dopo aver armeggiato unpo’ con esso, ne pescò una aprendo il lucchetto.
La sala era grande e ben illuminata. Le pareti erano coperte di scaffali in legno traboccanti di vasi, urne, teche di vetro, ognuna recante il suo beffardo tesoro.
Sugli scaffali di destra erano disposti in bell’ordine una serie di embrioni abortivi appartenenti a differenti periodi di gestazione, ognuno con la sua peculiarità. Erano acciambellati in posizione fetale, immersi in una sorta di liquido opalescente nel quale galleggiavano senza toccare il fondo. Passando accanto alla macabra esposizione poterono ammirare un bimbo senza mani, uno senza gambe, uno con due teste e l’ultimo, un piccolo batuffolo rosa con quattro occhi.
Evitarono di soffermarsi troppo sui crani sezionati in ogni prospettiva, sugli arti amputati, sui genitali sotto formaldeide e sulle mummie, due per la precisione, che sembravano urlare dalle teche di cristallo.
Una sola attrasse la loro attenzione, quella di una giovane donna perfettamente essiccata che li fissava con espressione attonita.
La targhetta affissa in basso a sinistra recitava: Mel Singer.
“Ecco ciò che volevo mostrarvi” disse Marlow additando una bacheca colma di cuori in barattolo.
Gli studenti si apprestarono alle sue spalle.
“Come potete vedere quello in alto alla vostra destra è un raro esempio di cuore invertito, appartenente a quale patologia?”.
“Situs inversus viscerum” disse timidamente Lorna.
“Situs viscerum inversus, casomai”, replicò spazientito il dottore.
“Comunque, notate come l’aorta origini erroneamente a destra e la polmonare a sinistra. Troverete ulteriori delucidazioni sul vostro atlante anatomico. E’ una patologia rara e non disvitale, infatti il cuore che state vedendo apparteneva, se non erro, ad un arzillo ottantatreenne”.
Per l’ora successiva il cattedratico continuò a dissertare di arterie, ventricoli ed atri,ma allo scattare del sessantesimo minuto esatto si voltò verso i suoi allievi e prese ad accomiatarsi.
“Professor Marlow” chiamò John Sparrow.
“Sì?” replicò l’uomo sospirando.
“E quel cuore lì in fondo che anomalia ha? A prima vista sembra perfettamente normale”.
Marlow si avvicinò alla bacheca con fare frettoloso.
“Lo è infatti”.
“E perché si trova qui?”.
Marlow parve in momentanea difficoltà, si torse meccanicamente il polsino della camicia prima di rispondere.
“Per rispetto dell’uomo a cui apparteneva”.
Uscì senza fornire ulteriori spiegazioni.
I ragazzi si scambiarono delle occhiate interrogative, quindi fecero per abbandonare la sala, quando Lorna gridò.
Si voltarono quasi all’unisono verso di lei, seguirono la traiettoria del suo sguardo e si fermarono attoniti.
Il cuore, di cui stavano parlando soli pochi istanti prima, aveva ripreso a battere.
Pulsava. Si contraeva ritmicamente sospeso nel suo liquido citrino. I ventricoli strizzavano il loro contenuto nelle arterie mozzate che riversavano bolle e liquame nel contenitore di vetro. Sembrava sul punto di esplodere.
Restarono muti ad osservare la scena per un tempo che parve infinito, poi John si avvicinò al barattolo e vi pose la mano sopra.
“Cristo”, esclamò, “non è un’allucinazione, batte” disse rivolto ai suoi compagni.
Ad uno ad uno i ragazzi si fecero dappresso spiando incuriositi il muscolo che continuava imperterrito il suo moto.
“Non è possibile”, sibilò Lorna con un filo di voce.
“Certo che non lo è”, la aggredì Donald, “eppure sta succedendo”.
“Ma non può essere!” Gridò Lorna.
“Calmi, state calmi” disse John.
“Come facciamo a stare calmi di fronte a questo…”, aggiunse Donald indicando il barattolo, “sembra il “Ritorno dei morti viventi””.
“Oh Dio, oh mio Dio. Chiamiamo qualcuno” continuò Lorna.
“Sì, magari un’esorcista” proseguì Donald.
“Ma che facciamo?”, implorò lei, “questo coso continua a muoversi. E’ raccapricciante…”.
“Portiamolo via” disse John.
“Sei pazzo!” Lo apostrofò Lorna.
“No, ha ragione” aggiunse Donald .
“Ma che state dicendo. Trafugare un cuore da un museo anatomico è già passibile di esplusione dalla facoltà, ma trafugarne uno che batte sotto formaldeide è semplicemente…geniale” disse sorridendo.
Si scambiarono un’ occhiata complice, quindi John nascose il contenitore sotto il camice aperto e si avviò verso l’uscita.
Giunsero al campus trafelati. Si rintanarono nella camera di Donald e misero il vasetto sulla scrivania sotto la finestra. Il cuore continuava a pulsare.
“Straordinario” disse John.
“Bene, e adesso cosa ne facciamo?” chiese Lorna.
“Lo portiamo ad un laboratorio di ricerca e diventiamo milionari” rispose Donald.
“No, no, no…ma non capite? Un cuore espiantato ricomincia improvvisamente a battere…”.
“No, genio, non capiamo…” replicò Donald per rompere il silenzio che era seguito all’affermazione di John.
“Vuole dirci qualcosa”.
“Chi?” chiese Lorna.
“Il morto, il defunto, il fantasma…”.
“Me ne vado” la ragazza si alzò prendendo la direzione della porta.
“Aspetta” aggiunse Donald.
Lorna si sedette mesta non staccando gli occhi dal cuore.
“Continua” disse rivolto a John.
“Non so, è una specie di sensazione. Ricordate cosa ha detto Marlow subito prima che il cuore ricominciasse a battere? Ha detto “Per rispetto dell’uomo al quale apparteneva”, quindi lo conosceva”.
“E allora?”.
“Allora andiamo da lui e ci facciamo dire il nome di quell’uomo”.
“E magari gli riferiamo anche che ne abbiamo trafugato il cuore che ha misteriosamente ricominciato a dare segni di vita…” sbuffò Lorna.
“Certo che no, quello lo teniamo per noi e per i laboratori di ricerca” disse dando una pacca sulla spalla di Donald.
John si recò dal dottor Marlow lo stesso pomeriggio. Raggiunse il docente nel suo studio privato e, dopo aver tergiversato per qualche tempo cianciando di esami e programmi di studio, gli porse la fatidica domanda, badando bene di mantenere un tono distaccato.
“Perché lo vuoi sapere?” chiese il professore con aria sospettosa.
“Mera curiosità”.
“Edward Dalton, fisiologo e psichiatra, uno dei padri fondatori della facoltà, morto circa ottanta anni or sono, vuoi sapere altro?”.
“Come morì?”.
“Non lo so, credo che non lo sappia nessuno”.
“E’ singolare che il cuore di un luminare sia conservato in un museo anatomico” aggiunse John ironico.
“Lo è in effetti, ma Dalton era un uomo particolare, geniale, solitario, una sorta di mecenate della medicina. Volle che alla sua morte le sue spoglie fossero lasciate alla facoltà per essere studiate”.
“Vuol dire che altre parti anatomiche di Dalton sono conservate nell’istituto di patologia?”
“Non ho idea di dove siano conservate, ma certamente si trovano sparse nei dipartimenti clinici dell’ospedale”.
John si accomiatò dal professore e fece ritorno al campus dove i suoi colleghi stavano facendo buona guardia al loro surreale tesoro.
La serata trascorse nella ricerca febbrile di indizi, notizie e dati inerenti la vita e le opere del fantomatico medico defunto. John riuscì a scovare una serie di indirizzi di piccoli e medi musei anatomici sparsi per la facoltà dove, in teoria, avrebbero potuto ritrovare il resto dei resti del patologo scomparso.
Lorna navigò per quasi sei ore in rete sperando di trovare note biografiche di Dalton, ottenendo solamente una scarna notizia riguardante la presunta appartenenza di un certo psichiatra di nome Dal ton ad una semi-seria setta esoterica che praticava oscuri ed arcaici riti in nome di una impronunciabile divinità del pantheon egizio.
Donald era perplesso sia per la smania di John di reperire il resto della salma del cattedratico, sia per l’espressione sbigottita che vedeva dipinta sul volto di Lorna che fissava il cuore pulsante attraverso il vetro opaco della teca.
Non credeva al soprannaturale, non credeva alle leggende metropolitane e non credeva nella mitologia, ma aveva una fede incrollabile nel dio denaro e quel muscolo fantasma poteva rappresentare la sua fortuna.
Doveva riuscire a disfarsi dei suoi amici in breve.
Se la magia fosca che aveva infuso una parvenza di vita in quel pezzo di carne, fosse d’un tratto svanita così com’era apparsa, il suo momento di gloria si sarebbe dissolto come neve al sole.
“Perché non vi recate sta notte stessa presso gli istituti della facoltà” disse improvvisamente rivolto a John ancora assorto nei suoi appunti.
“Cosa?” chiese il ragazzo distrattamente.
“Introducetevi nei musei anatomici dopo l’orario di chiusura. Non dovrebbe essere difficile data la scarsa sorveglianza della nostra università”.
John fissò Lorna.
“Credo che sia una buona idea” disse indirizzato alla ragazza.
“Perché non andate voi maschietti?” aggiunse lei.
“Bhe”, sospirò Donald, “dall’espressione terrorizzata con la quale fissi il nostro reperto, non credo che sarebbe una grande idea lasciarti da sola a fargli da sentinella”.
Lorna arrossì e tacque.
“Mhh”, grugnì John, “va bene…stasera faremo visita al museo anatomico della clinica ortopedica, credo che parte degli arti siano conservati lì”.
“Hai intenzione di trafugarli?” chiese Lorna. “Non lo so, dipende dallo stato in cui li troveremo” terminò laconico.
Donald sorrise fissando avido l’urna di vetro.
Giunsero nella clinica ortopedica verso le dieci e mezzo di una notte qualunque. Come predetto da Donald, la sorveglianza dell’edificio era affidata ad un’unica guardia, grassottella, stempiata, e, soprattutto, profondamente addormentata.
I due scivolarono con estrema facilità nell’edificio di cemento armato dalla facciata grigia, fatta di vecchi mattoni consunti e usurati dal tempo.
Il museo era situato, esattamente come quello di cardiologia, in un sotterraneo raggiungibile tramite un angusto corridoio.
L’odore di muffa e di stantio li fece rabbrividire. Il silenzio irreale che cingeva con il suo abbraccio gelido l’intero stabile, era rotto solo da un sottile crepitio. Indefinibile. Vagamente metallico. Un leggero…
“Grattare” sussurrò John.
“Che dici?” rispose Lorna fissandolo intensamente.
“Shh…”.
Crrrr….crrr…
“Lo sento!” Esclamò la ragazza.
John protese la testa verso la parete. Sembrava un segugio che avesse appena fiutato una preda. Entrarono nel museo. Crr…crr…
John accese la luce. Eccole lì. Le braccia di Dalton. Appese a ganci di ferro simili a quelli delle macellerie. Perpendicolari alla parete. Olivastre. Recise. Raschiavano all’unisono la parete con le unghie. Le dita lunghe e sottili come zampe di ragno, ticchettavano impazienti sul muro.
Lorna gridò.
John le tappò La bocca con forza. La ragazza si divincolò per un attimo, poi si liberò dalla stretta fuggendo via. Il giovane si avvicinò. Osservò per qualche istante la strana immagine che si palesava beffarda davanti ai suoi occhi, quindi accarezzò con la punta delle dita l’avambraccio disarticolato, che rispose fermandosi, poi, come guidato da una volontà immateriale, rispose alla carezza stringendogli la mano.
Sorrise, estrasse il telefono cellulare dalla tasca dei pantaloni e compose il numero di Donald. Il ragazzo rispose dopo l’ottavo squillo, sembrava trafelato.
“Dimmi John…”.
“Non ci crederai mai, ho trovato le braccia di Dalton…si muovono”.
Donald si arrestò, guardò la teca dove il cuore pulsava più in fretta, quindi fece dietro front e si incamminò nuovamente verso il campus, meglio vendere una salma semovente che un solo cuore.
“Ti aspetto nella mia camera” riagganciò.
John prelevò un sacco di plastica da uno scaffale e vi infilò l’arto destro che si flettè gentilmente su se stesso per non ostacolare la manovra. Fece altrettanto con il sinistro che si comportò con la medesima cortesia. Abbandonò lo stabile in tutta fretta per far ritorno al campus.
Lorna non li raggiunse.
John mostrò a Donald i suoi trofei e si accorsero che non appena gli arti furono adagiati di fianco alla teca con il cuore pulsante, la loro motilità divenne più coordinata. La strada era stata intrapresa e la decisione di trafugare il resto del corpo si era inevitabilmente concretizzata. Stavolta fu Donald ad incaricarsi di compiere la trasferta a caccia del tronco. I suoi piani di gloria e guadagno erano stati solo procrastinati, e la curiosità di capire dove conducesse quella anomala faccenda, si era fatta bruciante come un carbone ardente.
Depredare l’istituto di gastroenterologia dell’tronco, privo, ovviamente, del cuore di Dalton, si era dimostrato molto più complesso di quanto il giovane si aspettasse.
La sorveglianza dell’istituto era inesistente, ma il bottino era più ingombrante e agitato di quanto avesse immaginato. Le gambe del cattedratico furono, invece, ritrovate e sottratte da John dalla clinica ematologica la notte seguente, e disposte accanto al resto della salma sul pavimento del piccolo locale studentesco.
La visione d’insieme era molto più che semplicemente irreale. La teca di cristallo era stata appoggiata nel torace privato delle costole dalla mano di uno sconosciuto e, probabilmente, defunto patologo. Le braccia erano state appoggiate al tronco nella corretta postura, esattamente come le gambe, ed il tutto si contorceva all’unisono come animato da una singolare bramosia: le mani ticchettavano febbrilmente sui mattoni di marmo, il cuore batteva all’impazzata ed i piedi scalciavano l’aria come nell’intento di sollevare il corpo spezzato da terra ed imprimergli nuovo movimento.
Era fantastico. Macabro ed incantevole. E senza ragione.
Già, ora che il rompicapo era stato quasi del tutto ricomposto, mancavano solo due piccoli dettagli: la ragione che aveva portato a quella pseudo resurrezione ed un cervello che la potesse comandare.
Dell’ultimo non v’era traccia in nessuna clinica.
Donald aveva effettuato un giro di perlustrazione nell’istituto di neurologia subito dopo il ritorno di John da quello ematologico, ma senza ottenere alcun risultato. I cervelli conservati nel piccolo museo appartenevano a malati di mente, omicidi giustiziati ed illustri sconosciuti. Dell’encefalo di Dalton neppure l’ombra.
Lorna fece ritorno nell’appartamento verso le undici del mattino seguente. Osservò la marionetta dalla pelle scura di formaldeide appoggiata nel centro del pavimento, trasse un profondo respiro e si sedette sulla sponda del letto dove John era sdraiato con gli occhi rivolti al soffitto.
“Ben tornata” l’apostrofò Donald uscendo dal bagno.
“Vedo che avete completato la sciarada” disse lei abbozzando un sorriso.
“No”, precisò John, “manca la testa ed il perché”.
“Manca molto di più” aggiunse la ragazza.
“Ricordate”, riprese, “l’articolo che avevo trovato sul net? Quello riguardante la religione egizia ed un certo Dal ton?”.
I ragazzi annuirono.
“Bene, quella faccenda non c’entra assolutamente nulla con il nostro caro zombie, però, dopo essere fuggita dall’istituto di ortopedia non ho fatto ritorno al campus, ma sono andata in un internet point nel centro cittadino e, dopo svariati tentativi, ho trovato una cosa interessante: Dalton aveva un figlio di nome James. Non ho reperito ulteriori notizie su di lui, così quando ho fatto ritorno nel mio appartamento ho preso l’elenco telefonico della contea ed ho cercato tutti i Dalton residenti. Dopo alcune chiamate ho rintracciato quello chemi interessava”.
“Gli hai parlato?” chiese John interessato.
“Ho fatto molto di più, lo sono andata a trovare stamane”.
“E lui?” Donald era in evidente stato d’allerta. C’era un erede che avrebbe potuto reclamare la sua fortuna.
“Mi ha ricevuta con sospetto. Gli avevo detto che stavo effettuando delle ricerche bibliografiche per una tesi storica sulla facoltà e che avevo bisogno di notizie sulla morte di suo padre”.
“E ci ha creduto?” domandò John.
“Non credo, ma aveva una gran voglia di parlare. Abita in una sorta di villa colonica in periferia, a giudicare dall’arredamento e dal vestiario non credo che se la passi poi così bene, comunque mi ha raccontato diversi fatti. Il dottor Eduard Dalton è morto in un incidente ferroviario nel 1966 mentre si recava a Bangor per un congresso. Le cause del disastro non furono mai chiarite, l’unica cosa accertata è che il corpo del medico fu ritrovato completamente carbonizzato, fuso con parte del sedile sul quale viaggiava”.
“Ma non è possibile…” esclamò Donald atterrito.
“Continua” esortò John.
“A questo punto ho obbiettato che nei musei anatomici dell’ospedale sono disseminati resti del caro estinto a iosa, e che quindi mi sembrava perlomeno strano che il cadavere del dottor Dalton fosse stato ritrovato carbonizzato”, pausa, “a questo punto il signor James mi ha fissato esterrefatto e si è messo a camminare furiosamente per la stanza. Quindi mi ha guardata negli occhi ed ha detto:
“Non ho idea della persona alla quale appartengano quelle spoglie, ma mio padre è lì”
ed ha indicato una piccola urna funeraria dove giacciono le ceneri del dottor Dalton da circa trent’anni “.
John era perplesso, osservava la salma decomposta e scomposta che continuava ad agitarsi al centro del pavimento. Donald sembrava assente, quasi che la cosa non lo interessasse. Lorna fissava i suoi colleghi nell’attesa di una risposta.
“La testa…”.
“Cosa?” chiese la ragazza.
“Sapremo di chi è il corpo solo se riusciremo a ritrovarne la testa”.
“Hey Johnny bello, credi per caso che ci sia la targhetta con il vero nome sotto il cranio in formaldeide?” sghignazzò Donald.
“No, credo solo che ci dirà chi è”.
Ammutolirono.

Trascorsero la notte vagabondando per il monolocale, insonni e smaniosi. La salma fu delicatamente riposta in sacchetti di plastica ed infilata nell’armadio a muro. Il rumore delle unghie che grattavano i mattoni li faceva ulteriormente innervosire.
Non riuscivano proprio a venire a capo del bandolo della matassa. Di chi era quel corpo resuscitato? Dove poteva trovarsi il cranio di quell’uomo? E, soprattutto, qual era la ragione di ciò che stava accadendo?
“Dobbiamo tornare nello studio di Marlow” disse d’improvviso John sgranando gli occhi.
“Perché?” chiese Donald.
“Un’immagine…”, proseguì il giovane fissando un angolo imprecisato del muro, “…mentre parlavo con lui qualche giorno fa, ho notato una tendina bianca che copriva qualcosa”.
“Cosa?” incalzò Lorna.
“Non ne ho idea. Lo avevo quasi dimenticato”, disse fra sé e sé. “Avevo notato quel particolare appena entrato nella stanza, ma Marlow mi chiese subito di avvicinarmi alla scrivania, impedendomi di osservare meglio. Quella tenda potrebbe nascondere qualcosa di utile. In fin dei conti è stato lui a raccontarmi per primo la storia di Dalton”.
“Torniamo lì adesso” aggiunse Lorna alzandosi.
Donald restò seduto:
“Andate. Io resto a far da balia al caro estinto, tanto, ormai, ci sono abituato”.
Lorna e John uscirono di corsa, Donald attese di sentire l’eco dei passi allontanarsi e si precipitò verso l’armadio a muro.

Giunsero nell’ufficio di Marlow quasi mezz’ora dopo.
La guardia giurata all’entrata dell’edificio era singolarmente sveglia. Si era, evidentemente, sparsa la voce delle loro scorribande notturne nelle sale anatomiche. Dovettero attendere qualche minuto, fino a quando l’uomo in divisa non si allontanò probabilmente per andare in bagno.
Sgattaiolarono furtivi nello stabile. Attraversarono di corsa il corridoio buio e giunsero di fronte alla porta dello studio del docente che trovarono stranamente aperta.
Entrarono nella camera immersa nella penombra camminando piano, attenti a non intruppare in qualche mobile attirando l’attenzione dell’uomo in blu che sentivano passeggiare in qualche angolo imprecisato della clinica.
Silenzio.
“Chiudi le tendine dei vetri della porta” sussurrò John a Lorna.
La ragazza lo fece con circospezione. Quando il buio fu totale, John accese la luce e trattenne un grido.
Marlow giaceva riverso a faccia in su sulla poltroncina di pelle dietro la grande scrivania. Gli occhi sgranati fissi al soffitto. La bocca spalancata. Un rivolo di saliva luccicava secco all’angolo del labbro destro, le mani erano artigliate sui braccioli ed un’espressione inorridita era scolpita sulle fattezze ceree.
John si avvicinò al corpo, poggiò l’indice ed il medio della mano sinistra sulla giugulare ed una voce ovattata disse alle loro spalle.
“E’ morto”.
Si voltarono di scatto.
La tendina che era riaffiorata fra i ricordi di John, era ora tirata di lato a scoprire un barattolo di vetro chiuso da un tappo di ferro.
Dentro, avvolto dal solito liquido opalescente, un volto, senza calotta cranica, sorrideva. Sembrava una maschera di carnevale mal riuscita, orrenda e grottesca allo stesso tempo.
“L’hai ucciso tu?” chiese John con voce roca.
“No, è lui che ha ucciso me, quasi vent’anni fa”.
La voce flebile proveniva da un collo reciso, ed attraversava il liquido in piccole bolle che si infrangevano contro il pelo del liquame. Il volto mutava d’espressione con fare scoordinato, sembrava ridere e contorcersi all’unisono.
“Chi sei?” domandò Lorna.
“Malcolm Eduard Gersow, promettente cardiologo rivale dell’allora specializzando Marlow, nonché suo amante”.
I ragazzi si fissarono sbigottiti.
“Siete sconvolti nel vedere una testa mozzata che parla? Nello scoprire che Marlow era un assassino? O siete solo sorpresi dalla la nostra omosessualità?” Rise.
“Sinceramente sto ancora decidendo di cosa sbalordirmi” aggiunse John.
“Bene, credo che vorrete sapere anche il resto della storia”.
I ragazzi assentirono con un cenno del capo.
“Mi uccise per una banale questione di gelosia, professionale intendo, gli ero piuttosto fedele. Ero più bravo di lui e stavo per ottenere il dottorando che lo ossessionava. Non tollerava di essere il secondo. Così una sera, dopo una cenetta romantica, mi avvelenò. Usò del cianuro di potassio sciolto in un abbondante bicchiere di vino rosso, semplice, efficace e letale. Si diede un gran da fare per farmi a pezzi, sparpagliare le mie povere membra per i vari musei anatomici della facoltà e scrivere le false generalità dei reperti che portava notte tempo nelle cliniche”.
“Ma nessuno si è mai accorto dell’improvvisa apparizioni di parti umane nei musei?” chiese incredulo John.
“No. A quanto pare i musei sono estremamente poco frequentati. Nessuno perde mai molto tempo a vagliare il loro contenuto, un braccio in più, uno meno, chi ci fa caso. Inoltre Dalton era un fondatore poco amato della facoltà, dimenticato da molti. Scegliere quel nome era come lanciare una sfida vinta in partenza dato che la maggioranza dei professori e dei chirurghi presenti in questo ospedale non hanno neppure idea di chi fosse” tossì. Il volto si contrasse in una serie di smorfie disarticolate che strapparono a Lorna una risata isterica.
“O.k., Marlow era il tuo amante, ti ha ucciso per invidia professionale…ma perché…insomma, come mai…ecco…”.
“Perché sono resuscitato? Non lo so. So solo che negli anni trascorsi dietro la tendina di questo studio, sentivo tutto quello che Marlow diceva. Ascoltavo paziente ed attendevo. Quando, ogni tanto, scostava la stoffa e accarezzava il boccale di vetro, sentivo il calore delle sue dita. Mi parlava, mi parlava per ore. Forse il suo pensiero, il suo morboso attaccamento alla mia salma, il suo senso di colpa per un delitto mai confessato ed espiato ha impedito che il mio spirito lasciasse per sempre la mia carne, così, d’un tratto, mi sono svegliato”.
“E l’hai ucciso” terminò Lorna.
“Non proprio, anche perché senza braccia e gambe sarebbe stata un’impresa almeno ardua, non trovate?”.
“Bhe, in effetti” acconsentì John.
“L’ho chiamato ieri notte mentre stava leggendo un libro seduto alla scrivania. Si è alzato e piano piano si è diretto verso di me. Ha scostato la tenda e, quando gli ho sorriso, ha cominciato ad indietreggiare, a rantolare, a strabuzzare gli occhi. Gli ho detto di stare calmo, che non gli avrei fatto nulla di male, che non avevo alcuna intenzione di vendicarmi, ma lui si è accasciato sulle sedia ha grugnito per qualche secondo e poi è restato immobile. A giudicare dal colorito della sua pelle credo sia stato un infarto, ma, a dire il vero, non vedo molto bene da questa distanza, poi la formaldeide mi irrita terribilmente gli occhi” concluse.
I due si scambiarono un’occhiata furtiva, il volto divenne improvvisamente serio e continuò:
“Anche il resto del mio corpo si muove”, disse, “e le mie braccia hanno appena strangolato il vostro amico”.

Fecero ritorno al campus correndo a perdifiato. Lorna teneva la testa di Malcolm sotto il braccio. Il cranio sbatteva a ripetizione sotto il coperchio ferreo, ma restava in silenzio.
Giunti nell’appartamento trovarono Donald steso a terra. La mano di Malcolm continuava a serragli la gola mentre il resto degli arti erano sparpagliati ed irrequieti per la stanza.
“Che è successo?” gridò Lorna.
“Voleva vendermi”, sentenziò la testa mozzata nel barattolo,
“ha tentato di trafugare i miei resti per portarli ad un laboratorio di ricerca. Ho provato a dissuaderlo opponendo resistenza, ma non mi ha voluto dar retta. Nessuno farà di me un fenomeno da circo”.
John posò con forza il barattolo sulla scrivania.
“Ma cosa potremo mai fare di te?” urlò.
Malcolm tacque. “Voglio restare come sono” disse alla fine.
“Non possiamo lasciarti così…” disse Lorna indicando la gamba sinistra del dottor Gersow che stava tentando di rizzarsi in piedi contraendo furiosamente il ginocchio.
“Sì che potete. Tenetemi con voi. Farò tutto quello che volete, ma lasciatemi in pace in un posto dove possa continuare ad esistere con dignità”.
“Fa sparire il cadavere di Donald e poi vedremo se sarà il caso di riparlarne” disse John.
Le braccia di Malcolm si mossero di comune accordo, un po’ rozzamente presero Donald per le spalle e lo trascinarono verso la porta.
“Puoi aprirla, per favore?” chiese Malcolm con ironia.
John spalancò incredulo l’uscio dell’appartamento e le braccia trascinarono Donald fuori.
“Lo porterò alla fornace del dipartimento di anatomia patologica. Una volta bruciato il corpo se ne perderanno le tracce, e, come me, sarà un giovane misteriosamente scomparso di cui non si saprà mai più nulla”.

Tre mesi dopo John era sdraiato sul letto di Lorna, mentre lei sotto la doccia canticchiava un vecchio ritornello pubblicitario. Tornò nella stanza con i capelli bagnati ed un asciugamano, troppo piccolo per coprirle anche solo una spalla, stretto maliziosamente contro il seno. Si gettò fra le braccia del ragazzo e lo baciò sorridendo.
“Sono arrivate?” chiese.
“Non lo so…”.
La ragazza si alzò lasciando l’asciugamano fra le mani di John. Aprì l’armadietto sopra il televisore e salutò con gioia Malcolm. Avevano provveduto a cambiargli la teca. Ora era adagiato in un bel vaso di cristallo smerigliato ed avevano anche rimosso la formaldeide, dato che, per un ulteriore strano gioco del destino, la sua carne non accennava ad andare in putrefazione, e l’avevano sostituita con dell’acqua semplice che serviva ad umidificargli le sclere e la gola.
“Sei riuscito a prendere le risposte dell’esame di pediatria?” chiese John.
“Non ancora. Le mia braccia si stanno stancando di aspettare che la vostra professoressa abbandoni la sala docenti. Quella donna non smette un attimo di ciarlare al telefono, quasi quasi la strangolo con il filo…” disse sorridendo.
“No, Malcolm, non occorre, non stavolta. Stanno ancora cercando il responsabile dell’aggressione al dottor Steward, non attiriamo ulteriormente l’attenzione” aggiunse Lorna in tono bonario.
“Va bene”, acconsentì la testa, “però Steward se lo meritava. Gridare così solo per aver visto un gamba che strisciava sul pavimento…”.
“O.k. Steward se lo meritava…però da ora in poi si uccide e si aggredisce solo su nostro ordine…altrimenti…”.
John lasciò la frase a mezz’aria ed aprì il cassetto del comodino di fianco al letto. Prese il barattolo con il cuore che pulsava e ne svitò il coperchio, quindi fece per prenderlo far le mani.
“Ho capito, ho capito”, si affrettò a replicare Malcolm, “asseconderò i vostri voleri”.
Lorna sorridendo richiuse l’anta dell’armadietto.
(Prima o poi lascerete il mio cuore incustodito), pensò Malcolm nel buio della sua non vita, (e allora vedremo chi obbedirà a chi) .
Sorrise e chiuse gli occhi.

Vampire Gennaio 2004 (ladyofvampires)

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