Amore Eterno

Racconti


Prologo

18 ottobre 1975, Ore 23:10.

Poco fa è accaduto un fatto davvero raccapricciante. Un uomo di circa quarant’anni si è buttato dal terzo piano di un palazzo in Cape Street, Down Town, sfracellandosi al suolo, sotto gli occhi allibiti dei testimoni. Per ora le autorità non si sbilanciano ma sembra proprio che non si possa trattare di omicidio, stando almeno alle poche parole che il commissario incaricato alle indagini ci ha concesso. Secondo la ricostruzione di una passante, ora in ospedale in stato di shock, l’uomo, prima di gettarsi nel vuoto, avrebbe pronunciato alcune parole incomprensibili. -Forse una preghiera – ha affermato la donna, e ciò proverebbe senza ombra di dubbio l’ipotesi, finora più accreditata, del suicidio. Nelle tasche dell’individuo, di cui tuttora non si conosce il nome, non sono stati rinvenuti documenti di sorta, né tanto meno indizi utili a rintracciare eventuali famigliari. E’ stato invece trovato un fazzoletto insanguinato, che è stato già portato alla scientifica allo scopo di analizzarlo.
Restano comunque molti punti oscuri che si spera vengano chiariti nelle prossime ore: per quale motivo quest’ uomo ha compiuto un tale gesto?… Si è suicidato oppure qualcun altro ha la responsabilità della sua morte?… A queste e ad altre domande tenterà di rispondere il dipartimento di polizia di New York. Restate sintonizzati su questa rete per qualunque sviluppo…

AMORE ETERNO

Ormai erano le dieci e mezza. La pioggia batteva violentemente contro i gradini metallici della scala antincendio del palazzo più imponente di Cape Street. Aveva piovuto tutto il giorno e io avevo ormai abituato l’udito al rapido tintinnare delle gocce d’acqua sul vetro della finestra, non senza provare però un costante senso di fastidio; probabilmente a causa di un suono che mi aveva accompagnato per tutta la giornata.
L’edificio al numero 12 di Cape Street, dove è avvenuto questo inquietante fatto, era piuttosto lugubre e trasandato. Aveva i muri sporchi, impregnati di quel grigiume derivato dall’inquinamento delle automobili, e crepati in più punti, caratteristica questa che a prima vista suggeriva l’idea che potesse crollare da un momento all’altro. Invece, a dispetto delle apparenze, erano passati ormai più di cinquant’anni da che erano state poste le prime fondamenta e ancora non si era registrato alcun problema con le mura, né tanto meno c’erano stati crolli. 
Al suo interno non c’era più nessuno da diverse ore, tanto che chi fosse passato in Cape Street già verso le sette di sera avrebbe senza dubbio pensato che esso fosse disabitato e che nessuno ci entrasse più da anni. Tutti i miei colleghi erano andati a casa e si sarebbero ripresentati regolarmente il giorno successivo.
Ero rimasto solo io in quel palazzo inquietante e sinistro, intento a compiere il mio dovere. Al terzo piano, nell’ufficio n. 5, situato di fronte alla lunga scala a chiocciola di legno cigolante coperta da una guida rossastra che portava al pianterreno, ero concentrato a stilare un rapporto dettagliato sulle ultime pratiche svolte dal nostro glorioso studio, non essendo riuscito, per diversi motivi, a portare a termine il lavoro durante l’orario normale.
L’incarico in realtà era stato affidato a McFarry quella mattina stessa, ma dato che il buon Johnny doveva recarsi in ospedale per portare assistenza a sua madre in fin di vita, benché non entusiasta all’idea di far scorrere di nuovo nella mia mente gli orrendi crimini di cui si erano (o non si erano) macchiati i nostri clienti, accettai di sostituirlo nell’ingrato compito.
Guardai l’orologio. Quasi le undici.
Ero assolutamente deciso ad andarmene, tanto più che l’ambiente del mio ufficio cominciava a darmi sui nervi. Era una stanza di dimensioni modeste, arredata in maniera spartana. Il piccolo ritratto all’altezza della mia testa, situato sulla parete dietro di me e raffigurante una ragazza molto giovane, risaltava sulla tappezzeria color marrone chiaro, e il tavolino posto alla sinistra della porta contribuiva a dare un tono piuttosto antico all’insieme. Il resto del mobilio si componeva di una scrivania di mogano molto vecchia e consumata dai tarli, sulla quale lavoravo, e di una poltrona in pelle scura, ad uso dei clienti, situata davanti ad essa. La visione globale era senz’altro molto malinconica e funerea, fatta eccezione per il suddetto dipinto. Esso era infatti pervaso da una strana luce, da un chiarore indefinibile, che lo rendeva
completamente estraneo ad ogni altro oggetto presente. Anche il soggetto del quadro stonava con l’ambiente circostante: una ragazza alta e bionda, in piedi accanto a una finestra – probabilmente quella dell’ufficio – che sorrideva solare a chiunque la guardasse. Mancava la firma, ma in basso a destra si poteva leggere nitidamente:  “Per Helena, luce dei miei occhi”
Ogni volta che lo osservavo, nel tentativo di esulare dal clima opprimente che mi circondava, provavo una sensazione di autentica serenità interiore e, non di rado durante quella noiosa giornata, mi ero voltato ad ammirarlo. La lampada da tavolo posta sulla mia scrivania, che mi illuminava il volto di una luce fioca ma calda, e il suono ritmico della matita che agitavo con apparente disinvoltura sul foglio che avevo davanti, contribuivano a causarmi quel torpore tipico di chi sta per cadere in un sonno profondo. Ormai avevo perso tutta la mia concentrazione e difficilmente mi sarei liberato di quell’obnubilante ma allo stesso tempo dolce sensazione, tanto più che avevo anche parecchio sonno da recuperare. Ma, come spesso in questi casi, capita sempre qualche evento che ti costringe ad abbandonare quella narcotizzante atmosfera densa di sfumati pensieri e a ridestarti rapidamente, sguardo attento, pronto per qualsiasi reazione.
Così successe a me quella sera.
Nel momento stesso in cui realizzai che avrei potuto portare a termine il lavoro la mattina seguente, sentii dei rumori provenire dal piano terra. Il portone sbatté con violenza  e il tonfo, confondendosi con il continuo scroscio della pioggia, mi fece letteralmente trasalire. La mia matita si arrestò di colpo, come per un riflesso condizionato, come se avesse una volontà propria, curiosa anche lei di sapere cosa stesse accadendo. Turbato, cercai di vedere nell’oscurità del pianerottolo. Chi poteva essere a quell’ora? Forse qualche impiegato che aveva dimenticato l’ombrello, o magari il custode del palazzo che veniva solo a dare un’occhiata. Cominciai a fare ipotesi che, come ben presto vidi, si rivelarono del tutto errate. Con gli occhi fissi sulle tenebre che avvolgevano la zona delimitata dalla porta che malauguratamente avevo lasciato aperta, riuscii a percepire dei passi stanchi salire le scale lentamente, con un ritmo ben cadenzato, e, a poco a poco, cominciai a intravedere una figura alta e piuttosto magra trascinarsi in avanti, quasi che trainasse dietro di sé un macigno enorme.
“Certamente un uomo”, pensai.
Rimasi in ascolto, immobile, ma ormai tranquillizzato dal fatto che difficilmente poteva trattarsi di un ladro o di un assassino. Quale criminale, mi dissi, avrebbe fatto tanta confusione salendo le scale? Ciò nondimeno, continuavo a chiedermi chi potesse essere.
A un certo punto, mentre i passi si facevano sempre più vicini e ormai oltre alla sagoma cominciavo a distinguere anche i lineamenti della figura, un brivido freddo mi scese lungo la schiena e provai una sensazione di autentica angoscia, che allora non riuscii bene a spiegarmi, ma che dopo mi fu chiarissima in tutta la sua limpidezza.
C’era qualcosa di negativo, di non umano, oltre quella porta, ne ero sicuro. Il cuore cominciò ad accelerare i suoi battiti mentre in testa mi ronzava la stessa frase da almeno trenta secondi : “sta’attento…”.
Col sudore freddo che mi scivolava lungo le membra, urlai a squarciagola : 
– CHI VA LA’!? –
Non ebbi risposta, ma i passi non cessarono.
Dopo alcuni secondi il losco figuro attraversò la soglia: pietrificato dalla paura, potei finalmente guardarlo alla luce.
Non lo si poteva definire un tipo curioso o particolare, anzi. In un certo senso era l’emblema della normalità. Era severo in volto, e il fisico asciutto, il piccolo naso aquilino, e i capelli neri alla prussiana contribuivano ad accentuare ancor di più la durezza dell’espressione. Sulle prime mi ricordò il professore di italiano che avevo al liceo, anche se ero sicuro di non averlo mai visto prima di allora. Notai anche che si integrava perfettamente con l’arredamento tetro e sinistro dell’ufficio, cosa che lì per lì non mi piacque affatto.  
– Chi è lei? – domandai un po’ titubante, scosso ancora dalle emozioni provate un momento prima.
L’individuo non rispose, ma cominciò a osservarmi con attenzione. Sembrava quasi che cercasse di trovare nel mio volto un qualche particolare di estrema importanza. Io intanto rabbrividivo: l’aria si era fatta di colpo ghiacciata, e non ebbi difficoltà a notare che ciò era dovuto alla presenza di quell’uomo.
Con la fronte sempre corrugata in un immenso sforzo mentale e lo sguardo fisso su di me, fece un lento ma improvviso movimento in avanti togliendosi l’impermeabile e posandolo con cura sulla poltrona. Subito dopo si sfilò anche i guanti, e fu allora che mi cadde l’occhio sul soprabito, che recava, ricamata sul risvolto, la parola Richard.
Mi alzai e, tentando di mantenere un contegno duro e deciso, dissi:
– insomma, posso sapere che cosa vuole? Per caso lavora qui? –
Niente. Era come se mi rivolgessi al muro. L’uomo non faceva minimamente caso alle domande che gli ponevo e d’altro canto le sue azioni non mutarono affatto di ritmo o intensità. Era come se, per lui, io non fossi presente in quella stanza. Con la rapidità di un felino fece un balzo improvviso dirigendosi verso la finestra situata alla sinistra della scrivania. Io lo fissavo con gli occhi spalancati, tentando di capire cosa avesse in mente. Aprì di scatto la finestra e subito un violenta corrente di aria gelida penetrò nella stanza. Il rumore dei miei pensieri si confondeva con  quello della pioggia battente, ora diventato più forte, e prima che potessi anche solo pensare di fermarlo, quell’uomo aveva urlato contro le tenebre parole incomprensibili e si era buttato nel buio più nero della notte, lasciandosi cadere come un peso morto.
Corsi alla finestra e mi affacciai.
Non credevo ai miei occhi. Quell’individuo si era suicidato in un momento, davanti a me, e io non avevo fatto nulla per impedirlo. Ero rimasto immobile, incredulo e attonito, e ora una persona non c’era più. Non riuscivo a capacitarmene, e soprattutto non mi spiegavo per quale motivo un uomo che non avevo mai visto si era voluto ammazzare gettandosi proprio da quell’edificio. Guardai giù nell’oscurità cercando con lo sguardo il corpo del poveretto, ma, ancora scosso, non riuscii a vedere nulla. L’aria odorava di umido e la pioggia non accennava a calare di intensità. Erano passati alcuni secondi quando, ormai fradicio, mi volsi all’interno e strizzai gli occhi.  Mi affacciai nuovamente tentando di abituare la vista al buio quasi totale che avvolgeva la strada, ma per quanti sforzi facessi non riuscivo ancora a scorgere niente. Ci fu un lampo veloce, che per un attimo illuminò Cape Street di una luce
bianchissima.
Fu allora che mi resi conto per certo che sul marciapiede sotto di me non giaceva  nessun corpo.
Preso da un indescrivibile senso di panico, uscii dall’ufficio, scesi di corsa le scale e mi precipitai fuori nella notte. Mi guardai freneticamente intorno. Neanche l’ombra di un cadavere. “Forse l’uomo è ancora vivo e se n’è andato. No, impossibile. Nessuno sopravvive a un volo dal quarto piano di un palazzo, e anche se sopravvive certo non è in grado di alzarsi e camminare”. Ragionavo velocemente, tentando di dare una spiegazione logica all’accaduto, quando il cielo tuonò fragorosamente e per un attimo sentii tremare la terra sotto i miei piedi. “Forse ho le allucinazioni”, pensai ad alta voce. La pioggia aumentò e io, col cuore a mille, cercai di riportare alla mente tutto quello che era successo negli ultimi cinque minuti. Fu così che ebbi una folgorazione. Tornai su di corsa, entrai nell’ufficio e guardai in direzione della poltrona.
ERANO SPARITI!
I guanti e l’impermeabile del suicida erano spariti!!
Non ci potevo credere…
Improvvisamente una folata di aria gelida pervase la stanza e dal retro del dipinto appeso alla parete cadde un pezzo di carta ingiallito e consumato.

“Cara Helena,
L’ho ucciso. Se lo meritava per quello che ti ha fatto. Tu l’amavi è vero, ma io non potevo stare a guardare. Ora, felice, posso andarmene definitivamente. So che non potrei stare su questa terra senza di te, ma sta sicura che ti amerò in eterno…
Stanotte urlerò tutto il mio amore  al cielo stellato…
Addio

Richard

18 ottobre 1975″

In quel momento la campana della chiesa all’angolo di Cape Street batté le ventitrè…il primo di undici rintocchi…mancava un’ora precisa alla mezzanotte del 18 ottobre 2005…
Incredulo, rilessi più volte la data del biglietto…
“trent’anni…”.
E in un attimo tutta l’inquietante verità si affacciò nella mia mente.

Pietro Ghisoni Giugno 2006

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