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IL GRANDE DIO PAN

Arthur Machen

pubblicato nel 1894

Voto: 8/10

Prologo.
Laboratorio privato del dottor Raymond, iniziato ai misteri della “medicina trascendentale”. La sua candida e remissiva figliastra adolescente, la dolce Mary, accetta il privilegio d’esser cavia. Il medico trascendentale intende lesionare la sua materia grigia per demolire il muro dei sensi, e garantirle l’esperienza che nessun altro essere vivente ha potuto raccontare – se non in letteratura – in precedenza: quella dell’osservazione del “mondo reale”: Raymond porterà Mary a “sollevare il velo”, per vedere il Dio Pan.
Testimone dell’esperimento, destinato a restarne irrimediabilmente sconvolto, il placido mister Clarke, cultore d’esoterismo e appassionato di spiritualità.
L’intervento non sembra avere fortuna. Mary precipita in uno stato vegetale: Clarke impiegherà molti anni ad affievolire il ricordo dell’espressione del suo viso. Anni passati a leggere e redigere – suo unico, sulfureo hobby – delle “note per dimostrare l’esistenza del diavolo”.
 Il diavolo – il male – è, in questo romanzo di Machen, una creatura figlia d’un incontro tra due dimensioni altrimenti distaccate: nasce dalla fusione tra mondi estranei, e tende a trascinare via con sé, in una micidiale scia, membri della buona società londinese. È madre d’un’epidemia di suicidi, e di pazzia. È una donna che tende a cambiare nome: metamorfica e assassina, confonde il delirio sensuale con l’annullamento dei suoi compagni.
Clarke si limiterà a indagare – restando saldo al di qua della soglia. Il lettore potrà spingersi oltre, e rappresentare mentalmente quelle immagini che il tenebroso scrittore gallese Arthur Machen ha preferito evocare e non scolpire.   
Esemplare notevole di narrativa gotica, deliziosamente manicheista (“Et diabolus incarnate est. Et homo factus est”), “Il grande Dio Pan” è una inquietante allegoria xenofoba, che tende a rivelare quali malesseri, quali angosce e quali ossessioni s’annidassero nell’inconscio della buona borghesia britannica di fine Ottocento. Niente di diverso da quel che può albergare nelle oligarchie, e nelle classi benestanti occidentali del nuovo millennio: l’inquietudine figlia della volontà di conservare e difendere status, ruoli ed equilibri; l’irrefrenabile desiderio di vivere, nell’ombra, quel che alla luce si giudica proibito o sconveniente o non opportuno; un’inevitabile passione per il mistero del male – qui opportunamente raffigurata dalla ricerca di Clarke, che intende addirittura dimostrare l’esistenza del nemico di Dio.
Perché? Per colorire una quotidianità altrimenti anonima e ripetitiva o per liberarsi la coscienza dal senso di responsabilità per i propri impulsi, i propri pensieri e le proprie azioni?
L’impressione è che l’indicibile piacere della trasgressione sia stato il primo innesco d’una trasfigurazione letteraria così decadente, cupa e satanica. Questo contribuisce a rafforzare la simpatia del lettore contemporaneo nei confronti dello scrittore originario di Caerleon-on-Usk – e ad apprezzarne creatività, fantasia e immaginazione. Le stravaganze e le bizzarrie di Machen sfiorano l’eccellenza nella nervosa descrizione dell’improbabile laboratorio del dottore: una ex sala da biliardo. L’intervento sulla materia grigia ricorda invece una vecchia tela di Bosch: che fosse un intervento destinato a mutare la percezione della realtà è una suggestione di chi scrive. Lo sviluppo dell’indagine del cauto e curioso Clarke si tinge d’ossessività e di morbosità: influenza princeps, la narrativa di Edgar Allan Poe.  
Concludo con una annotazione di carattere diverso. Mi rivolgo all’editore Fanucci. Mi domando che senso abbia avuto pubblicare una quarta di copertina che andasse a rivelare al lettore l’unico, autentico colpo di scena del romanzo.
Sono rimasto sinceramente basito quando ho terminato il libro: quel che Machen aveva creato in otto capitoli, voi avete disfatto in dieci righe.
Scelta francamente incomprensibile, e piuttosto irritante.
Il lettore di questo articolo sappia che, pur con una certa fatica, ho rispettato il neofita rimanendo, quando m’è sembrato giusto, vago – e che quanto appena scritto è stato ideato per suggestionarvi e invitarvi alla lettura. Non ho nascosto la mia interpretazione del libro – ma non ne ho rivelato le dinamiche.
Grattandomi la testa (e sfiorandomi le corna) mi congedo da questo libro: che – era destino – non ho potuto godermi come avrei sognato.
Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi.

Febbraio 2005, Gianfranco Franchi (Lankelot.com)

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