Frankenstein
Mary Shelley
pubblicato nel 1818
Voto: /10
L’EPILOGO DELLA RICERCA.
“La vita e la morte mi sembravano barriere ideali che dovevo prima infrangere per riversare un torrente di luce sul nostro mondo immerso nelle tenebre. Una nuova specie mi avrebbe benedetto come suo creatore e sua origine; molti esseri perfetti e felici avrebbero dovuto a me la loro esistenza. Nessun padre avrebbe potuto pretendere gratitudine così totale dal proprio figlio come quella che avrei meritato da loro”.
(Mary Shelley, “Frankenstein”, capitolo IV).
Romanzo gotico, strutturato in forma epistolare e diaristica e fondamentalmente più dialogico che descrittivo, “Frankenstein” è una pietra miliare del genere: libro (eccessivamente) fortunato, giocato su un’invenzione (dell’autrice, o del clan Byron–P.B.Shelley-Polidori?) suggestionata dal galvanismo, risente pesantemente dei quasi duecento anni di età più per una narrazione ampollosa, non immune ai pleonasmi e alle ripetizioni, che per una lingua che si voleva iperletteraria e si è resa, a tratti, solo morbosamente bizantina.
L’architettura.
La cornice della narrazione è cervellotica, ma non complessa.
Le lettere del capitano Walton inaugurano il romanzo: il giovane ricercatore scrive alla sorella, mentre s’appresta ad avventurarsi in una spedizione “per la terra della nebbia e delle nevi”. Intende esplorare il Polo Nord.
È giovane, entusiasta e sfrontato: soffre per l’assenza d’un amico che sappia comprendere lo spirito della sua spedizione o che rappresenti un’affinità elettiva, altrimenti è dedito con ogni pensiero ed ogni energia al folle viaggio.
Dopo neppure un mese, mentre la nave è circondata dai ghiacci, incappa in colui che cercava: è un malridotto europeo dai modi concilianti e gentili, alla deriva su una slitta. Lo sconosciuto, pur in condizioni disperate, continuava a dare la caccia “a uno che gli fuggiva”. Ben presto, i due si riconoscono “fratelli nel cuore”, conquistano la reciproca fiducia e iniziano a confidarsi.
Walton era partito cercando “conoscenza e saggezza”: Viktor Frankenstein era stato maledetto dalla stessa ricerca, e si sentiva condannato a vivere fino al momento in cui avrebbe ucciso il suo nemico. Per proteggere l’amico dalle esasperazioni, dal dolore e dai pericoli mortali della ricerca, Viktor decide di raccontare l’impossibile e incredibile vicenda che l’ha “incatenato in un inferno eterno”.
Così, dalla sera successiva e per un’intera settimana, Walton trascrive, “per quanto possibile con le sue stesse parole”, quel che di giorno Viktor gli ha rivelato: ne deriverà un manoscritto (destinato a dare “grandissimo piacere” alla sorella che lo riceverà: e perché mai, considerando che si tratta di disgrazie?), strutturato in ventiquattro capitoli e concluso dai suoi appunti.
Il manoscritto costituisce il cuore del romanzo; gli appunti concludono l’opera. Un’ultima annotazione interessante, prima di dedicarci alla storia del medico d’origine ginevrina e della sua creatura: Walton afferma che il manoscritto è stato interpolato (!) da Viktor, che ha corretto e ampliato dove necessario il testo, “soprattutto per rendere meglio lo spirito delle conversazioni che aveva avuto col suo nemico”, perché, dal momento che la narrazione era stata trascritta, non voleva che “ne fosse tramandata ai posteri una versione mutilata”. Scopriamo che il protagonista delle vicende, oltre a essere geniale chimico e brillante matematico, non nascondeva, pure a un passo dalla morte, un eccezionale talento per la filologia e una stravagante e narcisistica sensibilità nei confronti dei futuri lettori.
Una stranezza inquietante, in effetti.
Considerando poi che, giusto qualche riga prima, Viktor aveva categoricamente rifiutato di svelare “i particolari della fabbricazione della sua creatura”, viene subito a cadere la pretesa di “non mutilare la storia”. È già mutilata.
Giureremmo d’avere di fronte un millantatore di prima categoria.
Via, è letteratura…(o è un altro autore che indirettamente rivela che, proprio su questo libro, qualcuno ha fatto più di un intervento, pensando alla posterità?)
In sintesi: in questa sezione è Viktor Frankenstein a narrare, ma è Walton a memorizzare e fedelmente (?) trascrivere, di notte, le sue parole. Il narratore rimane, così, in prima persona. Il testo, interpolato dallo stesso Viktor, è inizialmente destinato ad allietare le noiose serate della sorella di Walton.
Presento ora un paragrafo che pare suggerire che Viktor intervenisse già nelle lettere. Sentiamo come Walton lo presenta alla sorella nella quarta lettera.
“Non ho mai incontrato una creatura più interessante: i suoi occhi hanno di solito un’espressione selvaggia, quasi di pazzia; ma ci sono momenti in cui, se qualcuno fa un atto di gentilezza verso di lui o gli rende il più piccolo servigio, tutto il viso gli si illumina come di un raggio di bontà e dolcezza di cui non ho mai visto l’eguale. Ma perlopiù egli sembra malinconico e disperato, e a volte digrigna i denti, come se non sopportasse il peso della pena che lo opprime”.
Miracolosamente, ho qui copia del manoscritto originale del capitano Walton, ereditato da un mio prozio cosacco fuggiasco dalla Carnia: egli, a sua volta, l’aveva ereditato da un generoso mammut, nella Taiga, da bambino. Trascrivo questo stesso paragrafo: corsivate, le interpolazioni di Viktor.
“Non ho mai incontrato una creatura <del genere> (più interessante): i suoi occhi hanno di solito un’espressione selvaggia, (quasi) di pazzia. (ma ci sono momenti in cui, se qualcuno fa un atto di gentilezza verso di lui o gli rende il più piccolo servigio, tutto il viso gli si illumina come di un raggio di bontà e dolcezza di cui non ho mai visto l’eguale. Ma perlopiù..) egli sembra (malinconico e) disperato, e a volte digrigna i denti, come se non sopportasse il peso della pena che lo opprime”.
La storia.
Viktor nacque a Napoli (Paolo Cinella o Vittorio Pietrafranca?), da una famiglia di origine ginevrina. Amò sempre d’affetto particolare la sorella adottiva, Elizabeth, che preferiva opportunamente, fin dall’infanzia, chiamare cugina. Sentiva in lei “lo spirito vivente dell’amore”: spirito che avrebbe forse mitigato il suo temperamento “violento e passionale”, un giorno.
In gioventù, fu influenzato da Cornelio Agrippa, Paracelso e Alberto Magno. Affascinato dall’elettricità e dal galvanismo, si dedicò, negli studi accademici, alla chimica. Allievo del professor Waldman, illustre scienziato e buon matematico, fu rapito dal pensiero stupendo di farsi nuovo Prometeo e decise di liberare l’umanità dalla morte con un procedimento misterioso (galvanizzare la materia inanimata, e dunque restituire la vita a un corpo morto, per analogia: questa l’intuizione del dotto. Ma Viktor non svela altro, perché in fondo non sa neppure lui di cosa stia parlando).
Sconvolto dalla morte della madre, contagiata dalla scarlattina che aveva già debilitato la tenera Elizabeth, torna subito agli studi.
Per mesi, raccoglie e assembla vari organi (…) e crea un gigante di otto piedi di altezza, con una corporatura ovviamente proporzionata.
Una notte, la creatura di Frankenstein prende vita. Occhi “giallo opachi”, poi “acquosi”, “quasi dello stesso colore delle orbite biancastre in cui erano infossati”, labbra “nere e tirate”, respiro ansante, pelle gialla; non parla, ma “mugola” suoni inarticolati. Di fronte a quest’ultimo, imperdonabile difetto, (il letterato) Viktor, già vacillante, cede: è pieno di orrore e di disgusto, e fugge per la strada, lasciando sola la sua creazione.
Tempo dopo, scoprirà che il mostro, fuggito, ha assassinato un bambino che Viktor ben conosceva. A Ginevra tutti credono che la carnefice sia una balia, Justine: Viktor non riesce a scagionarla, e la vede condannare a morte.
Non è che il principio di uno scontro a distanza tra Viktor Frankenstein e la sua ribelle creazione (egli si è formato leggendo “Il Paradiso Perduto”) che, nel corso della sua fuga, ha acquisito competenze linguistiche e letterarie non comuni, godendosi Plutarco e Milton, sviluppando un eloquio forbito e inappuntabile; forse, ecco, un po’ sorprendente.
“È eloquente e persuasivo, e una volta le sue parole ebbero potere persino sul mio cuore: ma non fidatevi di lui. La sua anima è satanica quanto la sua figura, piena di inganni e di astuzia diabolica. Non ascoltatelo” – supplicherà Viktor, più avanti. Io l’ho ascoltato.
Il mostro, colmo d’amore e di disperazione per la sua solitudine, non chiede altro che una compagna: Viktor non vuole accontentarlo, perché impressionato dalla sua furia omicida e dal suo “malvagio amore”. Una volta sterminata la quasi totalità della famiglia Frankenstein (compresa la neo-signora Elizabeth), a Viktor non rimane che arrendersi a un’esistenza di caccia al mostro, che trova il suo logico compimento tra i ghiacci, al Polo, a qualche passo dalla terra dei Cimmeri. Giuro, ne parlavo ieri con Baudolino.
Infine Walton completa di annotazioni il manoscritto, racconta l’ultimo scontro e lo spedisce alla sorella, ovviamente deliziata.
Romanzo fiacco e ripetitivo, stupido, perché pretenzioso, e mal narrato e soporifero, è uno dei casi letterari più inspiegabili della storia. Ma chi scrive ha una certezza: Mel Brooks e Gene Wilder, tutto questo, l’avevano capito per tempo.
Gianfranco Franchi Ottobre 2003 (Lankelot.com)